MADRE D’INVERNO DI VIVIAN LAMARQUE

MADRE D’INVERNO DI VIVIAN LAMARQUE

Per anni ho creduto che la poesia fosse una condizione originale della lingua (suoni, etimologie, possibilità lessicali) e, dunque, che esistesse indipendentemente dai poeti. Oggi, pur continuando a pensare che ogni lingua abbia una sua originalità e che questa sia misurabile in modo oggettivo, fatico a vedere lì la sostanza della poesia. Fatico, infatti, a usare proprio la parola “poesia” . Mi sento piuttosto incline a usare la parola plurale “poeti”. Quando si parla, appunto, di “poeti”, il bisogno di una categoria onnicompresiva appare subito falsificante. Tutte le differenze e le incoerenze tra questa e quella scrittura, oltre che più accertabili, si rivelano necessarie, perché non c’è la confusa, generica “poesia”, magari con la P maiuscola, ma ci sono i ben distinguibili, minuscoli “poeti”, donne e uomini, che creano ciascuno come sa e può maschere di parole e, pronunciandosi musicalmente, commuovono l’ascoltatore-lettore, lo distolgono dai suoi pensieri, lo portano al pianto e al sorriso in un batter d’occhio, lo esaltano. Né lo fanno con chissà che discorso: basta un suono improvviso, un effetto di simmetria, una cosiddetta rima, una combinazione di parole non comune che spinga la fantasia oltre gli ostacoli del raziocinio e del conformismo. Basta un contrasto. Leggendo i versi di Vivian Lamarque, per esempio, uno non può non sentire il “poeta” prima che la “poesia”. Sì, Vivian Lamarque ci fa capire meglio di chiunque contemporaneo che la poesia è il poeta, che poeta si è o non si è; che non è questione di bravura, di bellezza, ma di sensibilità (per usare un termine che ha avuto una volta tanta fortuna e adesso non ne ha per nulla), di coraggio, di coerenza, di intelligenza. Nel suo libro, Madre d’inverno (Mondadori), si spiega meglio ancora che in tutti gli altri. È, questo, un libro che si ammira dal primo all’ultimo componimento. Ha tutto quello che un bel libro in versi deve avere: una voce che sa come e che cosa deve dire; una tecnica che non si distingue dalla naturalezza. Questa voce o maschera di parole si dà il compito di recitare la malattia e la morte della madre. Ci mette davanti ospedali, cimiteri, rituali funebri; e trasforma ogni oggetto in sorpresa, senza tuttavia toglierle la sua sostanza di cosa già vista o incontrata attraverso i sensi e i discorsi di tutti i giorni, riscattando il brutto, adornando il vieto e il comune, trasfigurando perfino un sacchetto di urina in qualcosa di ammirevole, secondo quella attitudine all’incanto che avvicina Vivian Lamarque a una Dickinson o perfino a un Baudelaire. Che la madre perduta assomigli alla madre dell’autrice, che certe poesie rimandino o sembrino rimandare a suoi ricordi personali non ci deve importare. Il ricordo non è mai un risultato dell’arte, ma una fonte; resta un fatto privato, tutt’al più interessante e rilevante per gli accademici. A noi lettori, invece, se cerchiamo nei libri un po’ di felicità, deve importare la madre di versi, la madre della maschera di parole. Solo così capiremo il poeta. Solo così proveremo, ascoltando, un vero sentimento. Penso a quanto è stata fraintesa e offesa, per esempio, la scrittura di Pascoli (l’autore che più metterei in relazione, per la questione autobiografica, a Vivian Lamarque) da quelli che hanno preteso di trovarci una trascrizione diretta dei traumi infantili dell’autore. La morte in Madre d’inverno si confonde con uno smisurato amore della vita, il tema più essenziale della Lamarque da sempre. Convinto dell’esemplarità del caso Lamarque, vorrei tentare un’altra definizione di poeta: il poeta è uno che recita l’amore della vita. Il suo, dunque, è un amore che parla, è amore stesso della parola. Il poeta è, allora, chi ama la parola e la usa per cantare la bellezza della vita. Il lavoro linguistico e metrico della Lamarque, ormai lungo vari decenni, va annoverato tra i più interessanti e preziosi del secondo Novecento. In Madre d’inverno i suoi meriti spiccano nel massimo grado. Non pochi momenti splendidi, a cominciare da quelli che ragionano sulla dimenticanza delle parole e dei nomi. Colpisce ancora la capacità di fare molto con poco, per dirla con Leopardi; di sfruttare al massimo le connotazioni del parlato (al punto che perfino la parola “bar” diventa struggente); la potenza della rima facile (“vita : matita”), come in Saba e in Penna; la pervasiva ironia, declinata in giocosità, in amarezza, in smarrimento, in humour, in attesa. L’intensità prevale generalmente sulla complessità; la brevità epigrammatica sullo svolgimento elegiaco. Eppure un componimento alquanto disteso come “L’albero” (già pubblicato in versione ancora più lunga tra gli inediti dell’Oscar Mondadori, uno dei rari best seller dell’editoria poetica) è una prova di sublime che può ricordare perfino la magniloquenza “abbassata” di uno Zanzotto o di un Giudici. “L’albero” è una delle liriche più belle che la lingua italiana abbia creato negli ultimi decenni: “Come lungodegente dormiva il cielo / un infinito letto confinante con l’est / e il sud del niente, un bianco letto / con zero amanti dentro, immacolate / le lenzuola, nessuno a nessuno diceva / buonanotte mai.” Ecco che, senza volere, ritorno a collegare la scrittura in versi alla natura dell’idioma nazionale. Qui, però, intendo solo dire che i poeti quello che trovano nella koiné poi lo restituiscono accresciuto, adulto, pieno di esperienza. I poeti prendono le parole di tutti e le portano a vedere il mondo, caricandole di storie e di storia. Danno alle parole un nome. Per questo si ha bisogno dei poeti. Vivian Lamarque è completamente all’altezza di questo grandioso compito.

Nicola Gardini

Sole24Ore

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