LE RAGIONI DELL’ARTE SECONDO VITTORIO COZZOLI
Nella bandella che firma in seconda di copertina, Paolo Ruffili parla di Dunque, l’Arte che vuole? (Biblioteca dei Leoni) come di “una novità assoluta nel panorama della poesia contemporanea”. Definizione che mi convince, sì, ma solo a metà, perché a dirla com’è, non è solo quest’ultimo nato di Vittorio Cozzoli a essere una novità assoluta nel panorama della poesia contemporanea, ma l’opera intera di Vittorio Cozzoli, o perlomeno la più recente: diciamo quella che s’incontra leggendo le maggiori prove pubblicate nell’ultimo decennio da questo outsider della bassa cremonese che da più di quarant’anni, in realtà, beve e assimila visioni da linfe che risulterebbero urticanti a quasi tutti i poeti “laureati” o à la page, lavorando a una sua idea inattuale del “fare poesia”, nell’ombra della società letterata, in quieta, fidente attesa del giudizio dei tempi lunghi o ultimi, che è quello che conta per lui e dovrebbe contare per tutti, alla fin fine. La maniera spavaldamente originale di questo Cozzoli giunto ormai nel centro della sua intenzione, è rintracciabile, pur a minore, nelle forme brevi che riempiono di densità il delizioso Cento e quindici cinquine, uscito tre anni or sono con le Edizioni l’Obliquo. Lì come qui, Vittorio Cozzoli si conferma poeta d’ispirazione mistica. Che non vuol dire molto, in sé, in termini di valore, ma vale come segno introduttivo a una pratica sapienziale del gesto poetante che punta con decisione al di là del recinto letterario. E quando dico “sapienziale”, in questo caso, intendo dire non tanto o non soltanto aperta all’esperienza di Dio, quanto, piuttosto, al modo giusto di cantarne e testimoniarne profeticamente le manifestazioni nell’epifania della natura e del suo oltre. Gioveranno e basteranno, io credo, due quartine che traggo dalla colata relativamente uniforme del libro, fatto, nel suo insieme, da una novantina di testi, per dare evidenza di alcuni di questi modi, e, più in profondità, della legge morale e dei presupposti intellettuali sui quali il temperamento stilistico del poeta ama appoggiarsi. La raccolta inizia così, in medias res: “Toc toc: è l’allegoria che alla porta / bussa: “Posso entrare?” (conciliabolo:/ Che fare? Se apriamo, entra. Cosa di nuovo / avrà da dirci? Dunque, che facciamo?).” Inizia, dunque, con l’irruzione sulla pagina dell’allegoria in persona. Cioè a dire, con nientedimeno che la spiazzante, e perfino irridente (si pensi a quell’ingombrantissimo “Toc toc” in posizione d’incipit!) riproposizione, in questa era post-eliotiana del disincanto e dell’inconsistenza, del principio allegorico come chiave e motore del dicibile essenziale. Cioè a dire, ancora, con un’affermazione piena di domande (quattro in quattro versi!) che suona come una rivoluzione di poetica esibita birichinescamente in punta di penna, come, oggi, può osare farlo senza cadere nel ridicolo, a mio avviso, soltanto un maestro della sprezzatura allenato all’intensità di un trobar leu agito dall’alto di una felicità mentale addirittura inconcepibile per gli stenterelli che arzigogolano i loro versi intorno al piedistallo triste del proprio io. Uno, per intenderci, che oltre a Dante, del quale Vittorio Cozzoli è studioso innovativo e illuminante esegeta, e alla grande tradizione della mistica occidentale (soltanto in questo libro Cozzoli parla di e, talvolta, con Plotino, Beda il Venerabile, Scoto Eriugena, Spinoza, Eckhart, Teresa, Suso, Ildegarda di Bingen, Lullo, Pascal, Teofane il Recluso e Simone Weil e nomina i biblici Amos, Mosé, Giobbe, Giuditta, Neemia, Geremia…), come Cozzoli ha letto, ragionato e assimilato sia il Caproni di Come un’allegoria che il tardo Caproni sincopato delle ultime raccolte, e che lo supera in più sensi, a quanto vedo, in azzardo ludico e strategico. Nella quartina che contiene in emistichio il titolo del libro si legge invece: “Dunque, l’arte che vuole? Questo solo: / che si veda quello che si sente e si senta / quello che non si vede, ma nell’aria, / anche da lontano, già profuma.” Parole che in ordine a scelta, misura, posto e proporzione danno contezza di un affilato labor limae di un autore tutt’altro che ingenuo, che insegue chiarezza, armonia e dolcezza perfino quando protende per vie di sinestesia il proprio sentipensiero metafisico-morale verso l’idea “massimalista” di un prossimo inveramento messianico del regno dello spirito. Assai più di un vaccino, da introiettare come un disinfettante d’ironia (à la Szymborsksa: “No, non la Szymborsksa questa sera,”) e malafede intellettualistica (“… Finisco di leggere Bonnefoy,/ un poco in dubbio sulla buona fede/ dei poeti…”) nel corpo corrotto della poesia contemporanea, mi sembra che la poesia di Cozzoli porti a noi lettori non troppo disattenti la riscoperta o re-invenzione di qualcos’altro: del mondo specificamente spirituale della poesia. Praticando dei modi semplici di poesia, Vittorio Cozzoli trova la novità della poesia, facendo cadere un’enorme zavorra di lettere morte sul sedicente Pantheon dell’Italietta poetante. Di questo occorre ringraziarlo.