LA POESIA DI PASQUALE DI PALMO
A dieci anni di distanza dal precedente Marine e altri sortilegi, Pasquale Di Palmo pubblica una nuova, compiuta raccolta con un titolo che difficilmente potrebbe dirne meglio il tema e la scansione, la compresenza delle figure rappresentate e l’inevitabile rilievo di una centralità: “Trittico del distacco” (Passigli, prefazione di Giancarlo Pontiggia, postfazione di Maurizio Casagrande,). Centrale è il luogo doloroso dove il padre del poeta vive il declino della sua vita, la perdita della memoria, del corpo e dello spirito: una via crucis che lo sguardo del figlio segue attraverso le sue stazioni con occhio lucido e pietoso, con tenerezza e malinconia. Ed è una malinconia che si lega a un senso acuto del tempo e a un ordine delle cose che prevede “sommersi e salvati”, e la scrittura di Di Palmo si sofferma essenziale su chi non ha più voce, o ne conserva una parvenza ormai inabile, così come conserviamo un corpo che gli anni corrompono. Essenziale, e si vorrebbe dire antiletteraria (da parte di un raffinatissimo cultore delle avanguardie letterarie del Novecento, soprattutto francesi, come Pasquale Di Palmo), se questo termine non suonasse in qualche modo riduttivo per una scrittura che non smarrisce mai l’esattezza del ritmo e si segnala per qualità e verità di immagini: uno scavo sulla parola, detta altrimenti, che è tra i non pochi meriti di questa raccolta. E va aggiunto come accanto ad un italiano di sorvegliata tessitura lirica si faccia strada l’uso colloquiale del dialetto, ma meglio forse sarebbe dire della lingua veneziana, che è la lingua del padre del poeta, degli amici con cui giocava al pallone da ragazzo sui campi riarsi della terraferma lagunare, Mestre, Marghera; luoghi anch’essi segnati da una perdita, che è quella della bellezza, ma al tempo stesso riscattati dall’umanità di chi li abita e li vive, dal loro affettuoso ricordo. Due intense composizioni in veneziano rivolte al padre, ormai trasfigurato in un elemento della natura, aprono e chiudono la sezione centrale del libro, “15 asciutte formelle incorniciate da due icone paterne, a latere, in dialetto” come benissimo dice Maurizio Casagrande. E vale qui la pena di coglierne almeno qualche riflesso: “Adesso ti xe un albero, papà, / un albero grando / sensa nome / dove le seleghete va a ripararse / quando ghe xe vento / e la vita se desmèntega de la vita / e mi me desmèntego / che no ti ghe xe più”. Parole che ci dicono pure come il ricordo sia minacciato dalla stessa esistenza nel suo trascorrere, ed è esercizio civile della poesia il soffermarcisi, salvando nomi di persone e di luoghi, finché è concesso, insieme alla loro luce irripetibile che ne “panneggia la pietà”. Questo ci suggeriscono anche le limpide prose liriche dell’ultima sezione del libro, le figure di amici e di conoscenti, dei vivi e dei non più vivi, convocate in un paesaggio che resta nella retina di chi lo incontra, e incontrandolo riconosce un’idea e una presenza di destino.
da “Poesia” n. 316, giugno 2016