Fernanda
ROMAGNOLI

Fernanda Romagnoli è nata nel 1916 a Roma, dove è scomparsa nel 1986. Le sue raccolte di versi: Capriccio (prefazione di Giuseppe Lipparini, 1943), Berretto rosso (1965), Confiteor (quarta di Attilio Bertolucci, Guanda, 1973), Il tredicesimo invitato (Garzanti,1980), Mar Rosso (Il Labirinto, 1997), Il tredicesimo invitato e altre poesie (Scheiwiller, 2003). Ha collaborato ad alcune riviste come “La Fiera Letteraria” e “Forum Italicum” e, per la radio, a “L’Approdo”.

https://it.wikipedia.org/wiki/Fernanda_Romagnoli

POESIE

Falsa identità
Prima o poi qualcuno lo scopre:
io sono già morta
da viva. È di donna straniera
la faccia tra i capelli in giù sporta
che subito si ritira,
l’ombra che dietro le tende
s’aggira di sera,
il passo che viene alla porta
e non apre. Suo il canto
che intriga i vicini coprendo
i miei gridi sepolti. Qualcuno
prima o dopo lo scopre. Ma intanto…

Lei a proclamarsi non esita,
lei mostra il mio biglietto da visita.
Io nel buio, in catene, a un palmo
da voi di distanza, sul muro
graffio questa riga contorta:
testimonianza che mio
era il nome alla porta, ma il corpo
non ero io.

Tu
Tu, che chiamiamo anima.
Colore negro, odore ebreo. Tu profuga,
tu reietta, intoccabile. Tu transfuga
dal soffio dell’origine.
Non ti spetta razione, né coperta,
né foglio di reimbarco.
Per registri e frontiere
non esisti.

Ma in sere come queste, di cangianti
vaticini fra i monti,
ad ogni varco
può apparire improvvisa la tua faccia
d’eremita o brigante.
“Fronda smossa,
pietra caduta…” trasale in sé il passante
che la tua ombra assilla
di crinale in crinale,
mentre corri ridendo nell’occhiata
del cielo, che ti nomina e sigilla.

Ritratto
Certo che lo conosco:
sul libro, in frontespizio, bianco-e-nero
viso tutto concesso all’allegria,
che in un’ombra comincia a intimorirsi
del suo solstizio.

Chi è lui vero, adesso,
nelle strettoie della malattia,
nell’età adulta dei figli che lo sgomina
di fronte al mondo:
lui, che nascosto domina
dal fortilizio dei versi, alzato il ponte
d’accesso, tuttavia sempre raggiunto
da spie d’occhi, da venti, da farfalle
– perché ha finestre aperte,
non feritoie – …
Che me lo centri l’anima,
affacciato alla valle ove Appennino
beve ammansito ai guadi del tramonto
e voci estive si sperdono in faville
– sfinite gioie – .
Lui, feudatario mite,
zigomi accesi da nubi in transumanza,
tremende sopracciglia su pupille
ove un riverbero impiglia
lacrime e intatta ilarità d’infanzia.

Oggetti
I piccoli oggetti, i piccoli
amici schiavi, che tirano
troppo in lungo la vita! Miei cari,
vi licenzio in tronco. È più dura
forse per me: ma chi monco,
chi gobbo, chi spelato da lebbra;
e il mazzo di chiavi risputato
da ogni serratura.

Gli ipocriti inermi! Bisbigliano
aiuto, pietà.
E s’uncinano a tutti gli appigli,
a tutti i ricordi come labbra
s’attaccano, come vermi.

Giù nel sacco – un tonfo – coraggio!
Non sarà un lungo viaggio.
In cantina, il bel dormitorio.
Col teatrino dei topi, il tanfo
del vino, la grata
(tarlata) del parlatorio
per la piuma, per la foglia di passo.
Tra vecchi fratelli… Diciamo
che a noi padroni va peggio,
quand’è l’ora nostra… Ma adesso
muoviamoci, andiamo.

Capro espiatorio
Uggiola alla fessura, cagna-luce.
Qualcuno il mio sonno ha legato
quattro zampe in un mazzo. All’aurora
chi aprirà? Voglio alzarmi. Ho paura.
Nel pozzo del cranio
– senza uscita –. Nel buio sacrario
sconsacrato. (La luce come un’unghia
sotto le porte). Capro espiatorio
già caduto sul fianco, otre di sangue
già mezzo vuoto – come scalci ancora
forte, mia vita.

Il tredicesimo invitato
Grazie – ma qui che aspetto?
Io qui non mi trovo. Io fra voi
sto come il tredicesimo invitato,
per cui viene aggiunto un panchetto
e mangia nel piatto scompagnato.
E fra tutti che parlano – lui ascolta.
Fra tante risa – cerca di sorridere.
Inetto, benché arda,
a sostenere quel peso di splendori,
si sente grato se alcuno casualmente
lo guarda. Quando in cuore
si smarrisce atterrito “Sto per piangere!”
E all’improvviso capisce
che siede un’ombra al suo posto:
che – entrando – lui è rimasto chiuso fuori.

È molto
È molto ciò che regala una giornata
di primavera – ma non sappiamo spenderlo
né accumularlo, tanto
la sua moneta è in disuso.
Ti sembra astruso dar credito
al minuscolo scoppio della foglia
che sbuccia il ramo a livello di finestra,
e neppure t’accorgi di vederla
nel mattinale scontento… Ma ne dura
la gioia in te fino a sera: in una voglia
di cominciare da capo, una maldestra
baldanza nel tuo passo,
mescolato alle giovani creature,
nell’indulgenza di te… Già questo solo
basterebbe per chiudere all’attivo
il raccolto del giorno – incluso il dolo.

Coniugale
E affacciati guardano fluttuare
questa frangia di sera sui palazzi,
che di sprazzi vermigli ci colora –
polene di balcone
fianco a fianco per vizio coniugale:
che cosa, strenuamente,
resiste in noi – che cosa, più reale
di quello che tentammo
o che insieme sbagliammo dall’inizio,
sale dal fondo e annaspa nella mente
per attestare che è vera, che esiste,
ch’è nostra – come un figlio anche malvagio
è nostro – come la vita, anche se sanguina
chinandosi come quest’aria in questa sera?

Lattiera di smalto
Lattiera di smalto, il tuo ventre
che fu sorso di neve – in sfacelo.
Il tuo dorso di cielo, irrigato
d’impietrite saette.
Mia madre versava, inclinata
su ogni tazza, scrutava un sospetto
di caglio, contava ogni stilla
del nutrimento – che fosse
il dovuto a ogni figlio.

Lattiera di smalto, esumata
dal ripostiglio, degradata a mummia
ancora viva – come un cuore avaro
che invecchia male…

Sognasti la sua mano
sul tuo braccio, talvolta? Non servire
ti sembrò duro?
Lei in prima linea, al bersaglio,
non ha retto altrettanto.
Io su dal tempo – su dallo specchio infranto
ecco, fulmineamente vi catturo
nella scheggia d’un gesto quotidiano
sul compiersi: ambedue
giovani – eterne.

Bilancia
E più spesso la notte, quando scorre
senza difesa il rivolo dell’anima,
ecco – si leva un vento
fuori stagione, come questo in sonno
sento baciare i muri della casa,
fra bisbigli di nidi e di fogliami
già trapassati: e invasa mi sorprende
di fantasmi d’amore, con ludibrio
e gaudio insostenibile. Ché ormai
già l’autunno s’appresta
e la rondine già scruta la rotta.
E pende fra uno sciame alto di stelle
dall’abisso notturno la Bilancia:
sopra il vivere mio lucida, esatta,
non turbata da venti, in equilibrio
fra il cielo già trascorso e quel che resta.

Sobillazione
Nei ghetti del mio corpo, certe notti,
i cinque sensi circolano cupi
sobillando lo Spirito: “A che vale
il tuo slancio di fiamma, sempre eluso,
i rossi rami che s’agitano e attorcono
tribolati in abbracci di sé stessi
– mentre il buio si svincola illeso
e ripropone il dilemma – .
Far da barriera ai lupi, che ti vale.
all’alba sarai fumo”.

In quelle notti di congiura e d’odio
la fiamma geme, s’accuccia nel suo grumo
di braci: e invoca che su lei s’affretti
la pietà della cenere, l’assedio
d’occhi ferini in circoli
sempre più stretti.

Niente
Morte, se vieni per condurmi via,
lascia che ombra su ombra
io ripercorra la gente.
In quest’incrocio di rotte
casuali, ci siamo incontrati
– fra vivi – così inutilmente.
Per migliaia di giorni,
ogni giorno:
all’andata, al ritorno.
Per migliaia di notti,
ogni notte:
coi ginocchi, coi fiati.
Non ci siamo scambiati
niente.

Forma umana
Era una forma umana, che la cruna
impedì del sentiero in salita?
Così a portata d’anima!
“Tu! Aspettami!”
Non udì. Sfavillò vuota la cruna,
Anima – o forma umana:
ah, già svanita.

Sulle quattro
Stamane sulle quattro, vagolando
col mio scettro d’insonnia per la casa,
senza accendere le luci, m’avvenne
d’intuire alla soglia
del terrazzo qualcosa, tra feroce
e soave
– non certo l’umidore
dell’edera risalita in apnea
né fatasmi di voce dalle antenne
dei palazzi accosciati. –
Era là fuori
la notte in piena doglia;
si sforzava di uscire dalle grotte
di se stessa. Affannosa. Le esultava
l’ampio addome di brividi, il madore
ne intrideva le stelle.
Fu come
per una donna: trattenne
un lungo attimo il fiato. E il suo dolore
s’assommò, sangue ed anima, in un grido
– lassù – di rosa.

Lui
Con Lui non abbiamo contatti.
Firma e sigillo: l’impronta del suo pollice.
Stipuliamo impossibili contatti,
di cui fingiamo attenti la lettura:
corrugata la fronte, gli occhi bassi
obnubilati da lacrime.

Gli eletti che hanno accesso all’anticamera
e gli porgono istanze alla fessura
hanno il sorriso storto dei graziati,
le pupille corrose dal riverbero.

Le finestre non guardano che pietre,
da che segarono l’albero e il fringuello
portò altrove il suo canto.

Adesso qui
le ingobbite poiane dei telefoni
gracchiano in coro, ci fanno fretta.
e sempre a null’altro precipita l’ascolto
che al più nudo silenzio.
Noi da quello
riconosciamo ch’è Lui.

Privilegio
Io sentivo fischiare i treni per Parigi.
L’aereo di Bombay fletteva l’aria,
meteora di stridore.
Non mi prendeva con sé la funivia
– scalavo lo splendore
con gli occhi – Io m’incendiavo
ad un nome di cupole: Turchia.

Io, tra le carcerate nel cortile
in fila, ognuna il fiato
sulla nuca dell’alba, e perseguite
dalle verghe dell’ora – incondiviso
solo il feltro del sonno -…

All’improvviso, un indice puntato
alle mie spalle: “È questa. Sia graziata”.
Simile privilegio – perché io?
Svegliata in mezzo alla notte, ancora scalza,
un biglietto da viaggio stretto in mano:
e mi spingono fuori – allo sbaraglio!
“Non è ciò che volevi,
per cui piangevi di notte?” m’incalza
una voce sottile, una lisca
di voce, forse d’anima.
Ma è l’alba,
laggiù, più verde d’una mela fresca!

È sul muro la fitta nevicata
del gelsomino, che più trema più odora.

richiamerò il respiro – come Lazzaro.
Prenderò su il mio corpo.
Verso il chiarore mi metterò in cammino.

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