Fabrizio
BREGOLI
Fabrizio Bregoli è nato a Leno (Brescia) nel 1972, vive in Brianza e lavora nel settore delle telecomunicazioni. Ha pubblicato i libri di poesia: la plaquette Grandi poeti (Pulcinoelefante, 2012), le sillogi Baedeker. Libro di viaggi (Montedit, 2014), Cronache Provvisorie (VJ Edizioni, 2015), Il senso della neve (puntoacapo, 2016), Zero al quoto (puntoacapo, 2018), il poemetto ENIAC incluso in iPoet 2017 – Lunario in versi (Lietocolle, 2018), Onora il padre (Serégn de la memoria, 2019), Notizie da Patmos (La Vita Felice, 2019). È incluso in numerose antologie e presente con i suoi testi sui principali blog di poesia.
POESIE
da CRONACHE PROVVISORIE
Storie di pianura
Restano i nomi, pronunciati per abitudine
distrattamente, obliqui serbano gli echi dei luoghi,
i riverberi – tre cantoni, feniletto di sotto,
il mulino del conte, la vecchia filanda, la seriola –
o neppure restano per i cascinali rossi
diroccati, nell’alternarsi di muschio e gramigna.
Qualche racconto tramandano i vecchi
sottovoce; se verità o mito
più nessuno sa dirlo:
Zaira verde bendata, passo di riccio,
la più abile a domare le mosche con le mani
o Pietro, pelle tabacco arsa dal sole,
smorfie di sorriso come carezze di vanga
o Diletta immobile nella sua sedia di giunco
o Demetra la bigotta, Nando il pazzo, Vittorio
e lei – per chi sa – nata quella notte, vissuta
nello spazio fra i primi vagiti e il silenzio,
battesimo consumato su occhi di madre, soltanto.
Sono le ferite della terra, appena più profonde
nel reticolo fessurale, nel duro delle zolle.
Le diresti durare, per un’ora più lunga di sole,
le leviga poi un breve scroscio di pioggia.
Sono le storie catturate nei cerchi dei tigli
che le annodano ai tronchi, in riva ai fossi
per preservarle forse…
e mentre sfiorata dal plettro del tempo
più alta ne avvampa la voce
non ho che labbra di sabbia
mani di paglia.
Mazinga e l’Uomo Ragno
Passare la domenica allo specchio,
estrarre la sequenza delle rughe
per farne perno, fingersi più vecchio,
rimpiangere il passato fra le fughe
delle piastrelle sorde ad ogni passo.
Così si sfoglia l’album di famiglia
convinti che ci possa dar la sveglia
con rapidi rintocchi di memoria,
rivedi poi la maschera di Zorro,
lo scudo di Mazinga, l’uomo ragno
gettare la sua tela in bianco e nero
sul volto imbalsamato di chi resta
e in controluce sai, si fa straniero.
È vita trattenuta sulle labbra,
riavvolta sulla spola il lunedì
nella promessa nuova del mattino,
resistere alle code in tangenziale,
fuggire il cannocchiale del vicino,
indovinare il titolo al giornale
espedienti tutti, e ali di fortuna,
sopravvivenza spiccia, da manuale.
Il cellulare piatto sotto petto,
la giacca abbottonata, la cravatta
fanno scordare l’azzurro del costume,
la chiazza di colore, dozzinale.
È tempo d’oggi, d’attizzare il lume
del quotidiano giogo al carnevale.
da IL SENSO DELLA NEVE
Il senso della neve
L’inverno è l’indugiare del pensiero
il perdersi nel vuoto delle stanze
fuggendo l’aria succube nel gelo
raccogliere le gocce della brina
stillarne fiato a pelo delle labbra
e reggere al tranello del già detto
all’esile lusinga del cantabile:
donzelletta passero assiolo, questa
bella d’erbe famiglia e d’animali
nonna Speranza e ogni caro poetico
vecchiume di lune e favole belle
il pio bove, i cipressi del Carducci.
Altro il timbro degno del nostro tempo
col pollice alle nocche un Vanni Fucci
che uncina, che flagella, che dà strazio
Pluto, Minòs ch’avvinghia alla sua coda
Flegiàs, Semiramìs lussurïosa
e serve una parola rattrappita
potata come un pesco di febbraio
quando sferza le guance tramontana.
Serve un torsolo minimo di voce
senza ravvedimenti, mediazione
stanar l’arpeggio nello sciabordio
delle stoviglie, frugare le pieghe
remote della polvere, scoprire
la chiave del durare in ciò che è breve
lo spazio dove resta illeso il bianco
allo svanire certo della neve.
Elettroforesi
M’imponi, necessità inalienabile
reverenziale rispetto del verso
come fosse un sacro crisma, un cristallo
da imballare con la dizione fragile,
t’aspetti assoluzione consolante
di rima ritmo luna amore stelle,
per lo meno l’aderenza al canone
in questa incontinenza dell’esistere.
Nella congerie osmotica del secolo
che vede l’uomo al bivio del suo nulla
non serve un trabocchetto, la fasulla
moneta dell’incanto ad ogni costo,
bisogna distillare il sentimento
disporlo in una curva intellegibile
e farne il diagramma degli stimoli
dargli la giusta coppia, potenziale
impulso e carica, elettroforesi.
Il verso va pressato all’essenziale
sforbiciato, sfrondato con tronchesi,
la nostra persistenza ormai è endemica
s’appoggia a pochi esatti gesti certi:
il cambio gomme, la curva glicemica
il piano di raccolta dei rifiuti
l’adeguamento ISTAT, la giusta diùresi
l’IMU e l’alvo regolari, l’afèresi
del poco che vale, dal tutto vile.
A rovescio
Talvolta accade che un labbro ti sfiori
dal gelo siderale dell’infanzia
e capriola di respiro solletichi
quell’angolo più in ombra del tuo lobo,
ruzzoli sullo scivolo di vertebre
a dirotto nello scavo del cuore
e senti nostalgia del minuscolo
del farsi più piccino, quasi fumo
svanito al suo destino, a quel tempuscolo
minuta evanescente sulla pagina
e strizzi gli occhi come nel risveglio
dall’incantesimo di un nascondino
dove chi vince è chi
sa più disperdersi, rendersi minimo
rimpicciolire al gioco degli specchi
smagrire anni, retrogradare il passo
affusolarsi come in dissolvenza,
a fuoco sul rovescio d’un binocolo.
da ZERO AL QUOTO
Di certa pruderie che non sospetti
La vita non si dice, non significa.
Ci s’avvicina come ad un asintoto
dimostra per assurdo la sua ipotesi.
È soluzione che condensa, satura
soggetta a sedimentazione rapida
per gravità vi bascula, precipita.
La vita non si còmpita, non indica.
Si recita ad accentazione sdrucciola
svicola se si sillaba, vi latita.
Ha persistenza solo per istanti
quel poco che vanifica l’antidoto
– consisterne finché si può, si deve –
e radica negli interstizi atipici
quegli attimi che addensa il temporale
per l’attrazione – nota – delle punte.
Frazione di millesimo che sgretola
residue parte e arte, come una zìqqurat
di sovrapposte, d’avventizie carte.
Fosse poesia
Fosse poesia potrei indugiare
su qualche vezzo cromatico, un radere
di luce tra capelli e volto, indulgere
a un virtuosismo lirico, un pacato
trasgredire metrico, i trucchi buoni
che lusingano in una lana di fiato
stemperano la voce che s’aggruma.
Ma questa scena è minima, assoluta
non si concede appello, assoluzione.
Lui siede agli scalini, tra i piccioni
le gambe lacerate dalle piaghe
intruso tra quei cenci, qui recluso
in un rettangolo di cicche, di sputi
lo sguardo arrovesciato su detriti
di storie, ciò che ne resta tra le unghie
sudice, un bicchiere, stente monete.
Chiede nuda evidenza del suo esserci.
E non serve una poesia, un altro alibi.
*
E ripetevi non ancora, non
adesso – e intendevi una desinenza
nuova, tu che temevi i congiuntivi
quel loro vivere solo d’ipotesi,
e il futuro, buono come esercizio
scolastico, a rinviare sempre a un dopo.
I verbi e quel loro vizio: alterare
le radici, sovvertire grammatiche
quel poco che trattiene a terra certa.
Preferivi gli avverbi – non ancora
non adesso – Schietti. Immodificabili.
Ti sentirai a casa
dove il tempo non ha coniugazione.
da ENIAC
*
Si richiede zelo d’amanuense
nella perforazione delle schede
arbitrio fra materia e nulla. Fori
come suture, istmo fra due linguaggi:
l’uomo, la macchina.
Alfabeto di sottrazione.
Arte del togliere.
Parlo un idioma ruvido
dialetto dell’origine.
La punzonatrice scheda ed ordina
plasma la cera
d’una sapienza antica. Cuneiforme.
*
Elettroni come api operaie, abili
a permutare cifre
incasellare numeri.
Trarre ordine dal caos, assertivo
calcolo da precarie
equazioni d’onda, nubi stocastiche.
Noi intenti a celare
l’alone di sudore sul colletto
bianco, ma occhio vigile sullo schermo
mani tese a cogliere il dato esatto.
Iloti. Obbedienti cani di Pàvlov
a fiutare la scia d’uno sparo.
*
Calcoli balistici, traiettorie
missilistiche, l’ordigno ad idrogeno.
Ma anche previsioni meteorologiche
ricerca scientifica, censimenti.
Alibi d’impiego a scopo civile.
Non m’assolvono. Ammettono
il concorso di colpa.
(La stampante campiva tabulati
col suo ciglio di grandine…)
da NOTIZIE DA PATMOS
Geografia di confine
Avevi la passione dei confini
tracciare fronti di demarcazione,
la loro geografia compiuta. Solida.
Per questo t’affidavi alle cartine
quella certezza di valichi e passi,
ciò che serve a dare ordine alle vite,
fosse anche un limbo nel deserto, un muro
una zona demilitarizzata.
A noi non è servito confinarci
ciascuno in un cordone sanitario
perché c’è sempre una metà che manca,
l’amore che rimane impronunciato.
C’è bastato credere
franca una terra di nessuno, noi
intatti territori d’oltremare,
colonie di un’uguale solitudine.
Istruzioni alchemiche per il compostaggio
Raccogliere e impilare sfalci d’erba,
gusci di noci, fondi di caffè
filtri del tè, ossa, altre immondizie buone.
Rivoltare due o tre volte l’anno, piano
per riattivare il ciclo del silenzio.
Di quando in quando innaffiare, aggiungere
qualche altra scoria, emersa da uno specchio
dimenticato. Pressare a dovere
come a reprimere un singhiozzo buio,
un ricordo di frodo.
Poi maturare a fondo, concedere
varco al tempo, alla sua lama gentile.
Talvolta – dopo un terremoto d’anni –
vi affiora una poesia.
Comuni divergenze
A unirci certi strani tarli, il debole
comune del piccolo artigianato,
altre stregonerie minime.
Tu amavi fabbricarti le cartucce
con antica perizia di speziale.
La polvere da sparo, il cartoncino
borre di feltro, pallini di piombo
il dischetto di sughero, orlare
infine il bossolo. Tutto dosato
negli accenti debiti, rudimenti
di metrica tascabile. Ricetta
per il bersaglio esatto.
Io invece preferisco la poesia,
la scienza bellicosa del disarmo.
Quel suo sparare a salve
per non fallire un colpo.
INGLESE
*
I wish it was snow this gap
a stainless white
and flowers skimming the evening.
I carry light suitcases, you said
I close the door slowly, I save
an unexpected glimmer out of it,
those soles of wind.
I speak the rifting blue, I watch over
the ring where the hands pray
the bleeding voice.
I stay here, hanging in this chrism
of silence. Steps that get lost
in a breath, the footprint that blakens the nails.
*
You remember them by disjointed
associations, heart drifts.
Like a flower bandana while
you set the table, or a snake
ring while you water
the garden or while dozing.
Or again, you remember a pedalo ride
you do not know when, and the sharp light. False.
Someone waving from the shore.
Deprived symbols, atoms
of dull stuff. Nothing noble
– perhaps we live on our losses –
nothing useful or just understandable.
However writing of it.
The art of forgetting.
(Translated by Elena Cattaneo)
TEDESCO
*
Die Häuser nehmen uns nicht auf. Sie verleugnen
die Schritte, die sie verloren, die Hände,
die die Mauern gravierten, nach und nach
mit dem unbeherrschten Wachsen der Kinder
und den von einem minimalen leuchtenden Alphabet
gezähmten Gesichter an den Fenstern.
Sie behalten von uns den Abzug,
den zweideutige Stempel unserer Diaspora.
Sie behalten die Nacktheit der Nadel,
geschwärzten Siluetten von Bildern und Möbeln
Wracks von Spielzeugen. So
vergessen die Körper
Ihre Missachtung.
*
Du hast Recht, Piero, wir sind Bäume,
wir stechen das Frucht hervor, von Wurzeln
die uns nicht gehören oder, noch weniger,
aus saprophytischen Pflanzen, die wie Rindenspreißeln
in einem grünen Nadelöhr innen leben
und, wie du sagst, Dichtung ist dieses
Handgeben, dieses Vertrauen an das nächste Wachwechsel
und weiter rennen, der Staffel vorbei gehen
und schon wissen, dass das Ziel unerreichbar und
dass das Wort zerbrechlich sind, weil das einzige Ewige,
das immer bleibt, das Unmögliche ist.
Perfektes Sich-nicht-jemandem-hingeben.
Es bleiben abgekratzte Hände, zerbrochener Atem,
Rände der Dunkelheit, die unseres Gesicht
gepflügt hat.
(Übersetzungen von Enrica Santoni Rothfuß)