Francesco Dalessandro è nato nel 1948 e dal 1958 vive a Roma. Dopo gli esordi su rivista (in particolare, su “Le porte”, n. 2, maggio 1982, con una nota di Francesco Tentori, e su “Discorso diretto”, quaderno 5, 1983, con il poemetto Divergenze), è stato uno dei fondatori e redattori della rivista di letteratura “Arsenale”, diretta dal 1984 al 1988 da Gianfranco Palmery. Ha pubblicato i seguenti libri di poesia: I giorni dei santi di ghiaccio (con una nota di Elio Pecora – Barbablù, 1983); L’osservatorio (Caramanica, 1998); Lezioni di respiro (Il Labirinto, 2003); La salvezza (Il Labirinto, 2006); Ore dorate (Il Labirinto, 2008); Aprile degli anni (Puntoacapo, 2010); Gli anni di cenere, (Associazione culturale ?La Luna’, 2010), con un’incisione di Michela Sperindio, e Primo maggio nel Pineto (Stamperia d’arte Il Bulino, 2012) con disegni di Silvia Stucky, oltre a varie edizioni d’arte. Ha inoltre curato e pubblicato cinque libri di traduzioni: W. Stevens, Domenica mattina; E. Barrett Browning, Sonetti dal portoghese; G. Manley Hopkins, I sonetti terribili; G. G. Byron, Il sogno e altri pezzi domestici; J. Keats, Sull’indolenza e altre odi (tutti per Il Labirinto, rispettivamente 1998, 2000, 2003, 2008, 2010). Altre traduzioni, su rivista: dal latino (Giovenale, Orazio, Ligdamo e Sulpicia), dall’inglese (Shakespeare, Andrew Marvell, Isaac Rosenberg e Kenneth Rexroth: una scelta delle sue Poesie d’amore di Marichiko è sul n. 19, luglio-settembre 2010, di “Fili d’aquilone”, rivista sul web) e dallo spagnolo (José María Alvarez, Francisco Chica, Ana Rossetti, David Pujante, Eloy Sanchez Rosillo, Pere Gimferrer). Nel 2012, ha ripubblicato, con Moretti & Vitali editori, una versione rivista e modificata de L’osservatorio, con una testimonianza di Attilio Bertolucci e il saggio, Il destino di ognuno, di Gianfranco Palmery. Cura il blog Poesie senza pari.
Per una bibliografia essenziale si rimanda a http://www.poesia2punto0.com/category/autore/d-f-autore-poesia-contemporanea/dalessandro-francesco/
labirintolibri.com http://www.labirintolibri.com/dalessandro/dalessandro.html
All’azzurro mitissimo, al
vago volo che v’appare e vi
sosta ammaliato, al vento
che lievissimo spira,
al caso che solo
avvenne, al dopo che
non c’è
né ci sarà
…
Perché tenerissima inclina
verdeviva gli steli dal-
l’aiuola ai vetri poi
che fa notte o gela,
la riscopri rinata
per miracolo all’ansia
mattutina.
Intanto che la sera
pianissimo e i rumori
della festa e le luci e
l’angustia per un ritardo
d’amore smorivano, da più
lievi brezze sospinte
sul campanile e le sette
……. tra stupore
e meraviglia con
movenze eleganti e
pigrissime giunsero
le nuvole.
Una rondine nuova-
mente si slancia, plana con
perfettissimo volo dalla punta
della memoria in un
filo di vento verso
la deriva serale, bianconero
lampo in una sortita di sereno,
solidale per amore
con gronda e stagione
con l’orizzonte che la chiama
al volo.
Un mite azzurro
adesca voli, la
quaglia e il cuculo
duettano nella
sera che intanto
a passettini
viene.
Una giovane coppia dal crocchio
a concilio sull’estrema
punta dell’Arsenale spicca un
volo radente sulla tremula
baia – poi si separa: il maschio
si tuffa argenteo
dardo sui verdi flutti pilucca
l’acqua riascende chiama
la compagna; lei
vira in
rapido slalom tra sartie
di barche dolcemente
ondeggianti al riflusso
della marea, gli giunge sul fianco
destro l’incalza lo invita
a un gioco
amoroso di tuffi sul filo
d’estri leggeri, in punta
d’ali planando su una cala
della rada; qui nel
primo cerchio dell’ombra
si dànno di becco –
poi con pigro
slancio tornano in seno
alla famiglia.
Anche la coppia
che il fuori tempo dei giorni
festivi avvicina e
divide ecco, spenta la sera
nel paseo solitario
e leggero, torna al colloquio
fervido per la Calle
Mayor – spinta a una notte
di pura lussuria all’ansiosa
lena dei sensi al colpo
risolutore.
a Luigi Amendola
Non ne avevo mai visti
tanti così volare a bassa quota
come ieri verso l’una da Ponte
Umberto I radendo il filo
della corrente sul Tevere
sull’acqua terrosa che l’ingrossa
posarsi –
non ne avevo
mai visti tanti insieme
rapaci dardi temerari mai
così vicini le penne luccicanti
argento e blu nell’aria fredda
nel sole tenue tra nembi
e cirri fuggenti –
mai visti
a stormo tanti su quell’acqua
che più s’intorbida per fame
dar di stocco e insaziati
su Tor di Nona e le sue gronde
oltre i terrazzi pensili
con strepiti e fischi sparire
disperdersi insieme all’azzurro
mite che la schiarita ci aveva
apparecchiato mentre incombenti
nubi gonfie s’addensavano pesava
il temporale –
di tanti
non ne era rimasto nessuno
io non ne avevo visti
mai così tanti.
(2.2.1986)
a Gino Scartaghiande
Né fresco né molle è più il fiume
antico dei padri ma solo
un’immonda cloaca –
l’incerta
schiarita radure azzurre ci aveva
donate ma s’erano presto richiuse:
con la scia di un jet
militare con l’ultimo gabbiano
anche il giorno svaniva
verso il mare –
sull’acqua
torbida e scura alcuni cormorani
pescavano –
io non ne avevo
mai visti: mi sono fermato
a osservarli ammirandone il nero
piumaggio brillare nell’aria
fredda all’ultima luce e l’eleganza
naturale nel nuoto: si tuffavano
rapidi giù sparivano contro-
corrente nei gorghi sott’acqua
per un tempo interminabile
poi tornavano a galla risalivano
a riprendere fiato riaffioravano
per rituffarsi ancora
non sazi –
osservandoli (altri
passanti curiosi s’erano fermati
a guardare sporgendosi
sulla corrente) ho pensato
a uccelli di terra e di mare
forti e belli come loro che i poeti
hanno cantato, all’upupa
calunniata da Foscolo al passero
solitario di Leopardi all’usignolo
di Keats all’allodola di Shelley
all’albatro di Baudelaire al canarino
di Saba e a tutti gli altri celebrati
nei versi –
poi mi sono ricordato
del cormorano del Golfo, le penne
ingrommate di petrolio…
(2.2.1996)
1
Torna, Musa, coi mattini brumosi e torbidi d’autunno
coi vapori dai fossi dalle forre
fumiganti gli odori aspri i colori
densi del parco la luce come il cuore
intermittente; torna con lo scialo
dei platani sui viali coi voli di passo sull’oro
delle foglie; torna con la foschia –
tenue sudario disteso pigramente
sopra i tuoi colli, mia mortale
città, sull’acqua fosca dei tuoi fiumi
letali – col sole temperato di settembre
che la scioglie; torna, ritorna col passo
frettoloso che guida ai sottovia
della metro all’aria aperta col primo
nubifragio di fine estate – code
e ingorghi inestricabili di traffico
impazzito –, con l’ansia la pazienza
ai versi necessaria col loro lineiforme
stratificarsi, frecce scagliate dritte
al bersaglio
«ora non posso, se mai
fu possibile prima, esaurirmi in un fuoco
di lirica passione sfolgorare
in un brillio di breve e fatale
intensità (sebbene è vero l’esatta
misura sia di dieci dodici versi
o tutt’al più un sonetto come O dolce
selva solitaria perfetto di Giovanni
Della Casa), ho bisogno di un verso
liquido che fluisca naturale
con forma e suono acconci che narri districando
il groviglio dei sensi, di un senso
semplicemente chiaro nemmeno verità
ma ipotesi del vero che sia
ricco senza effusione e scarno senza
povertà: questo m’è necessario»;
che ne sia
capace o lo creda tu torna, mia Musa, col fresco
della sera col rosa della rosa ottobrina e solitaria
tornata a rifiorire nell’aiuola feconda del cortile
(dove si godono il calore della terra le mattine
umide due gattacci, l’indolente invecchiato fulvo maschio
e la femmina furba giovanilmente inquieta che mi guarda
diffidando e sfidandomi); col rosa fuoco torna
dell’occaso la sagoma oscura del parco le luci
del Forte, le prime a vedersi, e le finestre accese
su Pineta Sacchetti – avamposto borghese popolare
di Primavalle proletaria – dal fondo della curva
nascoste dai filari verdecupi dei pini dalle spente
acacie macchiaiole lungo i bordi del fosso e della
strada, immerse nell’indaco notturno che spaesa
il reale
– infine, Musa, vieni con l’affanno del nuovo
o la quiete serena che dà la tua franca
parola.
5
Perché l’ora mattutina tra le sette
e le otto regala discendendo Monte
Mario corrusco nel freddo nell’aria di fine
novembre pungente un pensiero di morte,
chiaro ma così vago e trasognato
da somigliare alla foschia fluttuante
sui profili dei templi delle chiese
su San Pietro e l’intera torbida mortale
città, da sembrare irreale?
del mattutino dolo stella, maligna
e sola ancora brilli quando il primo
raggio invade la penombra e nella stanza
alligna come la vite che nell’imo suolo
alla nemica sua cugina edera viva acqua
d’amore e luce di speranza contende o rade
tardive rose nell’aiuola e nel giardino
al sole appena tiepido aperte proclive
alla passione dei sereni ultimi giorni
di maggio: nel maggiore anniversario chiara
la beltà ne godranno le tue assorte
pupille e arse lo sguardo l’interna
pena che prepara la loro vespertina
pudica morte avvertirà nel raggio
che le avvolge e dora, vita che si arrende
all’amore e alla realtà della sua santa
consumazione
...
Dorme, lei – lei che non dorme
mai quando i suoi cattivi
pensieri l’opprimono e inquieta
si gira e rigira nel letto, rancori
profondi ne turbano il sonno, ora dorme
forse paga del pianto che la notte piange
dietro la persiana abbassata la finestra
ben chiusa forse invece sopraffatta
da una stanchezza che perdona e addolcisce
anche l’ansia, perduta in un suo sopramondano
sogno; chi insonne soffre il proprio
dèmone attende l’alba il lucore
di un’aurora lontana che fra nembi
vuoti trovi una via rischiari le borgate
più remote le vie di popolari
periferie, che a lei doni il risveglio
presago di una domenica di pace
e di lavori domestici, a me il sonno
torbido e breve del mattino l’ozio
fra tavolo e giardino la solerte
necessità
...
7 (UNA MUSA)
La mia solita febbricola, una musa
casalinga e privata
così poco mondana ma non priva
di civiltà trastulla
la noia con le fragili forme di un’ansiosa
felicità, e con la tenera rosa ottobrina
ritorna la smania di vivere l’amore
giovanile la grazia perduta di un’età
passata, il tardivo pentimento la pudica
speranza, illusione nevrotica di un cuore
già stanco e incubo quieto d’ogni nata
mattutina dilezione, ma la sorte
solitudine adduce mentre calco claudicante
le scene di un mondo di nuovo avviato
all’autunnale sperpero di vita al desiderio
di morte, malinconica attesa che è carne
di futura mestizia carità che non consola,
nel giorno nato uguale e diverso diversa-
mente amato, l’inverno mio teatro
e osservatorio quando a sera anche l’inganno
mattutino si svela rivelandosi volgare
avanspettacolo giostra corteo funerario,
la verità rivelata e corrotta una profana
ascesa ai più infimi abissi del divino
amore, tempesta preparata a redimere
il deserto, una mano due tese a toccarsi
a tentare fortuna: cosa resta da volere
e da scrivere?
Avverrà in questo terso mattutino
cielo di novembre dopo i morti anche la mia
redenzione? la vite risanguina sul viale
vena il verde del muro lo insanguina
la siepe incurabile muore, vacillante
volontà mi sospinge dopo mesi, una sirena
dopo l’altra clamanti insistenti vocalizzi,
nel fresco mattino sereno a fare versi:
clemente quiete nel giardino assolato
e solitario dopo il sonno e la notturna
pioggia, indugio in minuzie ma non devo
disperare se immagini sfocate coglie il miope
sguardo: un nido caduto guscio vuoto
annerito dall’acqua gocce-luci sui tralci
dell’edera brillanti verdi tenere o dorate
escrescenze aghi e foglie la pozza l’invaso
d’acqua morta e liquami il filare dei lauri
il rastrello e la forbice l’erba tagliata,
una lumaca vi traccia scie d’argento,
la giornata si scalda le nostre tartarughe
passeggiano caute sulla terra umida
il traffico scorre, una piena anche la nostra
vita, passano cirri e stagioni noi restiamo
abbandonati nei giorni deserti rubricati
nelle vecchie istantanee di un album
che a sera la mente risfoglia, l’età è mondo
e passato una pozza d’acqua scura
dove trote argentate crescono i ricordi
nuotando e ingrassando sfuggenti
l’esca e l’amo del presente della mia
poesia.
*
alla tua fiamma appartiene la luce
del pensiero quando al risveglio spazia
acuminato quando concilia o produce
la consumazione del tempo i sensi sazi
poi che il segno la trama o delinea
come l’opera di un ragno il progetto
severo del fuoco quando affina
il legno intagliato e ne tempra il difetto
sono file filari di parole solchi e vene
nella terra arsa dell’anima che incisi
si fanno ordito e trama aeree nivee
scie nell’azzurro del cielo rotonde rive
salate del mare forme che se le svisi
perdi presto come tracce nella cenere
*
Traslucente al mattutino primo
lucore l’aria è lo specchio in cui misuro
e peso le offerte del nuovo mese: l’oro
vecchio della memoria e il metallo brunito
di un verso a lungo scarnito dalla punta
secca della matita l’ottusa lena e la boria
del mare i sassi levigati, contrappeso
a un futuro diverso e disadorno, un altro
anello nel cuore del pino la promessa
di nuove fioriture di rinascite…
illusioni elusive e vane regole invano
seguite, incapace d’ironia ti sei messa
su una cattiva strada mia
poesia –
comunque vada la verità
e il suo rovescio hanno un destino già scritto
segnato dal ritorno a casa dove ancora
il muro di verde d’anno in anno più alto
e fitto impedirà l’evasione il salto eliso
domestico o nostra caienna volontaria
deriva o secca “ma l’amore coltiva e
cura i suoi confini: il giardino la rosa
canina la siepe di lauro la sua
mondanità” – fiore proteso sull’infimo
abisso del mondo spolpato fino
all’osso e arso il verso come stella
alpina sopravvive alla mia
siccità.
*
“Berryman scrisse innamorato una centuria
e più di sonetti audaci appassionati –
suo modello Petrarca, un caso dubbio
secondo Pound – e li tenne per vent’anni
nell’incuria dei cassetti clandestini
come l’amore che vi era raccontato…”
anch’io (m’ero ripromesso di non scriverne
più) più per caso che per amore ne ho fatti
alcuni (doppi come ha due facce ogni umana
realtà: cuore e ragione corpo e anima
acqua e fuoco, così si dice) un colloquio
“o un conflitto?” con me stesso l’aspetto
estivo e fervido d’una cosa maturata
durante l’inverno l’aprirsi d’una porta…
“una scorta devota ai recessi della tua
mente (il poeta lui stesso stupisce del suo
ardire), come un’ospite inattesa si siede
e fa colazione insieme a noi sarà questo
la poesia? capire se il divario fra idea
e forma è dovuto a fortuite coincidenze
a fortunate interferenze a un disturbo
del pensiero o della visione; la tua prima
estate di vena dopo il Miles e un inverno
reticente, hai infilato i tuoi versi come i grani
di un rosario: a quale scopo?” non l’avevo
premeditato: furono il mio trastullo
e riposo dopo le calde mattine
sulla spiaggia le nostre soste per la spesa
come comuni villeggianti all’Ossostore.
*
la mente innamorata di un’idea
la corteggia finché la possiede
e genera l’amore che con sete
di conoscenza in silenzio s’iddia
nel vuoto mondo (nessuna via
di perfezione gli è chiusa ma vede
allontanarsi ogni giorno le mete
più alte e il desiderio – lui medea
di sé – l’uccide ancora innocente
col tossico acre dell’indifferenza
e dell’errore), un mondo senza
salvezza dove apre ali di cera
l’idea e s’invola nell’aria leggera
sedotta dalla luce della mente
che la consuma, disperatamente
Olandese volante alla deriva sull’azzurra
corrente sera di giugno e cielo cieco
come il nostro appartenerci “quando il Bene
ci abbandona, l’Amore, e la vita non consente
variazioni… è il suo stile” tra l’edera
e i lauri del giardino i tuoi testardi
animali sensitivi s’interrano aspettando
l’acqua le foglie tremano non meno
sensitive più verdi degli anni “se non hai
cuore se non hai fede non potrai
più scrivere… tu lascia che il passato
il passato si giudichi da solo –
ti domandano versi sul futuro: qual è
la prospettiva?” l’occasione fa il poeta
su lui pesa la grazia di un passato ancora
vivo e domani e domani è come un morto
giudizio poi che natura e arte
hanno virtù… “ma non sono mai state
virtuose” e la trama sospesa la perfetta
tessitura della mente cattura quel che sa:
età e mondo “un poeta annoiato
mentre sceglie quali versi lasciare
ai suoi posteri pensa al futuro?” – pre-
visione: una busta sigillata con le ultime
volontà: DA NON LEGGERE PRIMA DELLA MIA
MORTE – gracchiando la cornacchia il nero
uccello serale preannuncia quelle nubi
oscure apportatrici di pioggia, noi sedendo
e conversando le osserviamo
avvicinarsi…
Saranno queste cicale insaziabili di luce
e di sole – così esperte nell’uso
del loro strumento – sarà la stridente
melodia sempre uguale ma variata
nell’effetto – solo canto o richiamo
d’amore? – sarà il caldo pomeriggio
a destare il rimpianto sarà l’afa della casa
provocante una strana prostrazione,
sarà l’arte naturale del dolore – insinuante
anche in ore serene il ricordo e il rimorso –
sarà il suo peso lieve e insopportabile
questo studio d’insanabili incertezze
a darmi forza a permettermi nell’ora
in cui il giorno morirà di non morire ma scrivere?
*
la disperata mente se dispera
di sé affida idee e altri affetti
al cuore che li rianimi e le inerti
ragioni ne ravvivi come cera
e cenere del mondo perché certi
giorni quando più forte l’afferra
il desiderio e l’ansia si rivela
compagna del dolore benché resti
vigile quanto più l’amore esalta
la volontà di sofferenza il fiato
le manca,
però tenera si scalda
tanto è innamorata quando guarda
indietro al tempo che se n’è andato
e tratta le ombre come cosa salda
Nevicava. Cadeva anche la notte
su case e strade e al lume delle prime
lampade i fiocchi sembravano gocce
di miele trasparenti. Nella buia
cucina ardeva un fuoco sazio. Latte
caldo e sonno bevevo a una schiumosa
tazza mentre mia madre che cuciva
e raccontava storie era ai miei occhi
torbidi perché da stanchezza chiusi
rosa e blu nel riverbero del fuoco
e nelle tenebre fredde oltre la scala
che ora avrei salita per andare
a letto e per sognare anni futuri
fiorire presto di bellezza e d’ansia.
Nasceva da innocenza o impudicizia
puerili il turbamento che bambini
cugini scoprivamo in quei mattini
di neve e gelo quando appena usciti
dal sonno infreddolita mi stringeva
e toccava aspettando che le tazze
schiumose e calde della colazione
fossero pronte? Se in quelle carezze
non c’erano intenzioni né malizia
perché scaldando il latte sulla stufa
nuova dalla cucina “non toccatevi!”
nonna intimava? Se era solo il primo
ingenuo incanto perché quel piacere
intenso e breve mi tremava dentro
come paura?
Neve di maggio: nel silenzio ottuso
dei sentimenti colse di sorpresa
e intirizzì cuori e ragioni, avvolse
il paese adagiato sulla bianca
costa del monte e che sopra la mobile
apparenza sembrava somigliare
a quell’esile nudo di ragazza
fiorito dal risveglio – l’uno a specchio
dell’altra (che con occhi ancora pieni
di sonno sorrideva) – o era miraggio
quel languore sfinito e abbagliante
il gelido mattino presto invaso
da un dolore più acuto del silenzio
e incessante, paziente, acuminato?
No, non era né inganno né morgana
invernale la mossa positura
che la luce dell’alba ghiaccia tenera-
mente baciava e faceva sua –
o se lo era nel fresco silenzio
della stanza era solo per il caldo
affanno della notte che il ricordo
riaccendeva – era il docile abbandono
del bianco sopra il bianco contro il muro
di luce oltre il suo fianco più reale
di un rimorso pudico e appena vero
se all’esultante aria del mattino
potrà svanire – simile al silenzio
diventato alla luce già frastuono.
*
la mente innamorata quando mira
indietro al tempo ormai andato
sale scale lunari nella sera
umida e lasca cerca le perdute
ombre mentre il vento le spira
contro e strappando fogli a un caduto
calendario s’ingola e s’infessura
nei riposti dell’anima in un cupo
abisso di dolore intellettuale
perciò freddo e abitato dal male
di cattivi pensieri avvelenato
da un’aria d’omissioni e pentimenti
vani se il senno svanirà coi sensi
e lunatico o alieno o stralunato
sulle gobbe lunari non sarà trovato
1984-85
I
L’ora offuscata di un gelido giorno
d’aprile andato senza soprassalti:
la tramontana non si dava pace,
la sentivamo nel cortile interno
battere le persiane e nell’aiuola
sferzare i lauri le ortensie i gerani
e il pino nano sotto la finestra,
né le piantine fiorite in ritardo
sembravano poterla sopportare,
dalla mia ansia era nata una fallace
propaggine di calma tra fatica
e riposo, Laura bambina di otto
o nove anni sedeva alla sua panca
davanti a me disegnando tranquilla:
un prato di montagna due figure
donna e bambina erano ferme e assorte
guardavano lontano forse a chi
le chiamava dall’ombra poi che il sole
era già basso e nascosto alla vista
dava riflessi ai vetri di una casa
rossa al pozzo a uno scivolo a una pazza
altalena o alla pioggia che rapida
s’avvicinava scendendo dai monti
dietro stormi di rondini alle gronde
dei tetti dove intanto la luna
sorgeva pallidissima… Io ero
nuovo e rinato dentro la mia ansia
che si esauriva in muta esortazione.
II
Creatura mia leggera, ecco tornata
la stagione che tanto sospirammo
nei lunghi giorni gelidi d’inverno;
volubile e cangiante, primavera
è come il tuo sorriso di bambina
o l’umore che oggi ne disegni
in pioggia gronde rondini fratello
sole e sorella luna, tu e tua madre.
(Se siete voi le due figure ferme
sul prato perché io non sono al vostro
fianco? E chi guardate così assorte
avventurarsi o perdersi lontano
uscito dalla vista dietro il filo
del tetto? A cosa, a cosa stai pensando?)
E che pensi di chi ti siede – intento
a pensieri segreti tanto poco
adulti tanto più sentimentali
per un poeta che oggi dal dolore
i suoi succhi distilla come l’ape
il nettare dai fiori – di chi intento
più di te al tuo disegno ti siede
dietro quando ti volgi e lo guardi
seria senza sorridergli? E perché
ora alle tue figure aggiungi il male
umano di quell’ombra che s’allunga
sui giochi e sulla casa e li minaccia?
Di chi è la figura fuori vista
a cui l’ombra appartiene che vi volge
le spalle e s’allontana? E dove va?
per A. B., ancora
Se un giorno mi lascerò, fuggendo
da questi viali di platani malati
e lungotevere invasi di traffico,
alle spalle la città nella tua Parma
verrò e salendo ai monti Casarola
raggiunta mi vedrai seduto
sulle sue pietre a piangere il fiore
della tua poesia per sempre caduto,
ma oggi nel caldo di un mattino
di giugno cercando invano parole
che curino il dolore esco in giardino
a osservare la piccola famiglia
di tartarughe – genitori e figli –
sostare quieta in un cerchio di sole.
Questo di tante speranze mi resta
oggi: il calore di un pallido sole
che illude tutti, i testardi animali
corazzati contro le offese naturali
e anche i poveri poeti indifesi
e pieni di un’angoscia che rinnova
il dolore premendo sullo sterno
e soffocando il cuore ma lasciando
la mente presa nella rete dei suoi
ragionamenti… L’estate vicina
già punge con questi primi raggi
domenicali. Non serve e non vale
oggi incidere versi se in giardino
anche il merlo riposa sugli allori.
Più sussurro che voce erano i versi
il trionfo di un eros che non conobbe
mai resa appagandosi solo se gli occhi
voraci si saziavano – complice la luce
matura del primo pomeriggio penetrante
dalle tende semichiuse nella camera guscio
vuoto in cui l’amore si accuccia nei giorni
estivi – del tuo corpo bruno di sole acre
di sudore e di sale quando stremata «lasciami
riposare» pregavi ma convinta e vinta
dalle carezze che la lingua ai tuoi golfi
umidi e colli prodigava ti piegavi
e ti aprivi per accogliermi ardente
brace languente cera…
Il sonno si smarrisce sulla soglia
trasparente dell’alba, si risveglia
un altro giorno al rumore feriale
del traffico arrembante sulla nera
curva che falcia il parco dove i cani
si rincorrono liberi, al frastuono
dei clacson impazienti, delle voci
invadenti che imprecano e disturbano
dalla strada o dal parco, dei richiami
delle cornacchie tra i rami dei pini,
del chioccolio della badante slava
che aiuta la padrona e l’accompagna
in bagno o che si lava, col contorno
dei soliti rumori: l’acqua aperta,
il ticchettio dei suoi tacchi sonori,
il trillo della sveglia, poi lo squillo
del telefono, il «pronto!», quel vocio
stridulo, mentre in alto gli operai
salgono sui ponteggi, ecco ripreso
il lavoro, ora penso.
Ma non apro
ancora gli occhi, m’avvicino sfioro
il suo fianco col fianco la sua gamba
con la mia: basta questo, trascolora
la notte in un mattino d’esiliata
solitudine ed ore tutte d’oro
s’annunciano agli occhi assonnati
se aprendosi a un sereno senza nubi
e pioggia avrà il celeste sole e aria
pungente per accoglierci se uscendo
insieme andremo per le strade, lenti
i suoi passi nel fulgore di vetrine
e specchi (ma che cosa, dio del vento,
sussurrerai all’orecchio della nube
che come un bianco otre verserà
lacrime di dolore o di dispetto
sul parco sulla strada sul giardino
quando nel pomeriggio cibo e amore
avremo consumato e sarà presto
e sarà tardi per il sonno?).
Intanto
il traffico si acquieta e dalla strada
tace il rumore, l’eco delle voci
degli operai dai ponti s’allontana,
la donna slava è uscita, nel silenzio
che piove in casa m’alzo: lei è sveglia
ma chiusa come un pugno in mezzo al letto
indugia nel tepore: ha freddo? ha ancora
voglia di sonno. So quel che dirà
appena alzata: «no, non ho dormito
neanche un’ora stanotte, solo all’alba
ho preso sonno… ma poi quei rumori
feroci, assurdi!»
L’ansa di silenzio
s’è schiusa presto ed è ripreso cupo
l’andare consueto e assonnato
del traffico feriale: ah, ma se invece
improduttive saliranno le ore
di questo giorno di febbraio freddo
ma chiaro e lasceranno ansia e salive
arse nei tuoi pensieri, solo in lei
spera per la salvezza, solo lei
avrai che accenda il fuoco nel tuo petto
e il suo respiro per tenerlo vivo
ancora e ancora…, penso.
Ora il mattino
nasce con questa fede e questo coro
profano di rumori che accerchia
la casa e il risveglio mettendo
ansia nell’aria azzurra che rischiara
dolcemente la stanza e nei suoi occhi
ancora chiusi al saluto del giorno.