La Poesia italiana del Novecento - The italian Poetry of the 20th century

Francesco Dalessandro


 

Francesco Dalessandro è nato nel 1948 e dal 1958 vive a Roma. Dopo gli esordi su rivista (in particolare, su “Le porte”, n. 2, maggio 1982, con una nota di Francesco Tentori, e su “Discorso diretto”, quaderno 5, 1983, con il poemetto Divergenze), è stato uno dei fondatori e redattori della rivista di letteratura “Arsenale”, diretta dal 1984 al 1988 da Gianfranco Palmery. Ha pubblicato i seguenti libri di poesia: I giorni dei santi di ghiaccio (con una nota di Elio Pecora – Barbablù, 1983); L’osservatorio (Caramanica, 1998); Lezioni di respiro (Il Labirinto, 2003); La salvezza (Il Labirinto, 2006); Ore dorate (Il Labirinto, 2008); Aprile degli anni (Puntoacapo, 2010); Gli anni di cenere, (Associazione culturale ?La Luna’, 2010), con un’incisione di Michela Sperindio, e Primo maggio nel Pineto (Stamperia d’arte Il Bulino, 2012) con disegni di Silvia Stucky, oltre a varie edizioni d’arte. Ha inoltre curato e pubblicato cinque libri di traduzioni: W. Stevens, Domenica mattina; E. Barrett Browning, Sonetti dal portoghese; G. Manley Hopkins, I sonetti terribili; G. G. Byron, Il sogno e altri pezzi domestici; J. Keats, Sull’indolenza e altre odi (tutti per Il Labirinto, rispettivamente 1998, 2000, 2003, 2008, 2010). Altre traduzioni, su rivista: dal latino (Giovenale, Orazio, Ligdamo e Sulpicia), dall’inglese (Shakespeare, Andrew Marvell, Isaac Rosenberg e Kenneth Rexroth: una scelta delle sue Poesie d’amore di Marichiko è sul n. 19, luglio-settembre 2010, di “Fili d’aquilone”, rivista sul web) e dallo spagnolo (José María Alvarez, Francisco Chica, Ana Rossetti, David Pujante, Eloy Sanchez Rosillo, Pere Gimferrer). Nel 2012, ha ripubblicato, con Moretti & Vitali editori, una versione rivista e modificata de L’osservatorio, con una testimonianza di Attilio Bertolucci e il saggio, Il destino di ognuno, di Gianfranco Palmery. Cura il blog Poesie senza pari.

Per una bibliografia essenziale si rimanda a http://www.poesia2punto0.com/category/autore/d-f-autore-poesia-contemporanea/dalessandro-francesco/

labirintolibri.com    http://www.labirintolibri.com/dalessandro/dalessandro.html

 

da LA SALVEZZA

 

LE NUVOLE (E ALTRE OSSERVAZIONI)

 

L’approdo

 

All’azzurro mitissimo, al

vago volo che v’appare e vi

sosta ammaliato, al vento

che lievissimo spira,

al caso che solo

avvenne, al dopo che

non c’è

né ci sarà

 

 

L’erba

 

Perché tenerissima inclina

verdeviva gli steli dal-

l’aiuola ai vetri poi

che fa notte o gela,

la riscopri rinata

per miracolo all’ansia

mattutina.

 

 

Le nuvole

 

Intanto che la sera

pianissimo e i rumori

della festa e le luci e

l’angustia per un ritardo

d’amore smorivano, da più

lievi brezze sospinte

sul campanile e le sette

……. tra stupore

e meraviglia con

movenze eleganti e

pigrissime giunsero

le nuvole.

 

 

La rondine

 

Una rondine nuova-

mente si slancia, plana con

perfettissimo volo dalla punta

della memoria in un

filo di vento verso

la deriva serale, bianconero

lampo in una sortita di sereno,

solidale per amore

con gronda e stagione

con l’orizzonte che la chiama

al volo.

 

 

Sera

 

Un mite azzurro

adesca voli, la

quaglia e il cuculo

duettano nella

sera che intanto

a passettini

viene.

 

 

 

COPPIE

 

Cartagena, ultimo dell’anno 1987

Una giovane coppia dal crocchio

a concilio sull’estrema

punta dell’Arsenale spicca un

volo radente sulla tremula

baia – poi si separa: il maschio

si tuffa argenteo

dardo sui verdi flutti pilucca

l’acqua riascende chiama

la compagna; lei

vira in

rapido slalom tra sartie

di barche dolcemente

ondeggianti al riflusso

della marea, gli giunge sul fianco

destro l’incalza lo invita

a un gioco

amoroso di tuffi sul filo

d’estri leggeri, in punta

d’ali planando su una cala

della rada; qui nel

primo cerchio dell’ombra

si dànno di becco –

poi con pigro

slancio tornano in seno

alla famiglia.

 

                Anche la coppia

che il fuori tempo dei giorni

festivi avvicina e

divide ecco, spenta la sera

nel paseo solitario

e leggero, torna al colloquio

fervido per la Calle

Mayor – spinta a una notte

di pura lussuria all’ansiosa

lena dei sensi al colpo

risolutore.

 

 

I GABBIANI

                                                                                                    a Luigi Amendola

 

Non ne avevo mai visti

tanti così volare a bassa quota

come ieri verso l’una da Ponte

Umberto I radendo il filo

della corrente sul Tevere

sull’acqua terrosa che l’ingrossa

posarsi –

                non ne avevo

mai visti tanti insieme

rapaci dardi temerari mai

così vicini le penne luccicanti

argento e blu nell’aria fredda

nel sole tenue tra nembi

e cirri fuggenti –

                        mai visti

a stormo tanti su quell’acqua

che più s’intorbida per fame

dar di stocco e insaziati

su Tor di Nona e le sue gronde

oltre i terrazzi pensili

con strepiti e fischi sparire

disperdersi insieme all’azzurro

mite che la schiarita ci aveva

apparecchiato mentre incombenti

nubi gonfie s’addensavano pesava

il temporale –

                    di tanti

non ne era rimasto nessuno

io non ne avevo visti

mai così tanti.

 

(2.2.1986)

 

 

I CORMORANI

 

                                                                                                        a Gino Scartaghiande

 

Né fresco né molle è più il fiume

antico dei padri ma solo

un’immonda cloaca –

                                l’incerta

schiarita radure azzurre ci aveva

donate ma s’erano presto richiuse:

con la scia di un jet

militare con l’ultimo gabbiano

anche il giorno svaniva

verso il mare –

                        sull’acqua

torbida e scura alcuni cormorani

pescavano –

                    io non ne avevo

mai visti: mi sono fermato

a osservarli ammirandone il nero

piumaggio brillare nell’aria

fredda all’ultima luce e l’eleganza

naturale nel nuoto: si tuffavano

rapidi giù sparivano contro-

corrente nei gorghi sott’acqua

per un tempo interminabile

poi tornavano a galla risalivano

a riprendere fiato riaffioravano

per rituffarsi ancora

non sazi –

                osservandoli (altri

passanti curiosi s’erano fermati

a guardare sporgendosi

sulla corrente) ho pensato

a uccelli di terra e di mare

forti e belli come loro che i poeti

hanno cantato, all’upupa

calunniata da Foscolo al passero

solitario di Leopardi all’usignolo

di Keats all’allodola di Shelley

all’albatro di Baudelaire al canarino

di Saba e a tutti gli altri celebrati

nei versi –

                poi mi sono ricordato

del cormorano del Golfo, le penne

ingrommate di petrolio…

 

(2.2.1996)

 

 

da L’OSSERVATORIO

 

 

I – L’OSSERVATORIO

 

1

 

Torna, Musa, coi mattini brumosi e torbidi d’autunno

coi vapori dai fossi dalle forre

fumiganti gli odori aspri i colori

densi del parco la luce come il cuore

intermittente; torna con lo scialo

dei platani sui viali coi voli di passo sull’oro

delle foglie; torna con la foschia –

tenue sudario disteso pigramente

sopra i tuoi colli, mia mortale

città, sull’acqua fosca dei tuoi fiumi

letali – col sole temperato di settembre

che la scioglie; torna, ritorna col passo

frettoloso che guida ai sottovia

della metro all’aria aperta col primo

nubifragio di fine estate – code

e ingorghi inestricabili di traffico

impazzito –, con l’ansia la pazienza

ai versi necessaria col loro lineiforme

stratificarsi, frecce scagliate dritte

al bersaglio

                    «ora non posso, se mai

fu possibile prima, esaurirmi in un fuoco

di lirica passione sfolgorare

in un brillio di breve e fatale

intensità (sebbene è vero l’esatta

misura sia di dieci dodici versi

o tutt’al più un sonetto come O dolce

selva solitaria perfetto di Giovanni

Della Casa), ho bisogno di un verso

liquido che fluisca naturale

con forma e suono acconci che narri districando

il groviglio dei sensi, di un senso

semplicemente chiaro nemmeno verità

ma ipotesi del vero che sia

ricco senza effusione e scarno senza

povertà: questo m’è necessario»;

                                                che ne sia

capace o lo creda tu torna, mia Musa, col fresco

della sera col rosa della rosa ottobrina e solitaria

tornata a rifiorire nell’aiuola feconda del cortile

(dove si godono il calore della terra le mattine

umide due gattacci, l’indolente invecchiato fulvo maschio

e la femmina furba giovanilmente inquieta che mi guarda

diffidando e sfidandomi); col rosa fuoco torna

dell’occaso la sagoma oscura del parco le luci

del Forte, le prime a vedersi, e le finestre accese

su Pineta Sacchetti – avamposto borghese popolare

di Primavalle proletaria – dal fondo della curva

nascoste dai filari verdecupi dei pini dalle spente

acacie macchiaiole lungo i bordi del fosso e della

strada, immerse nell’indaco notturno che spaesa

il reale

 

infine, Musa, vieni con l’affanno del nuovo

o la quiete serena che dà la tua franca

parola.

 

 

5

 

Perché l’ora mattutina tra le sette

e le otto regala discendendo Monte

Mario corrusco nel freddo nell’aria di fine

novembre pungente un pensiero di morte,

 

chiaro ma così vago e trasognato

da somigliare alla foschia fluttuante

sui profili dei templi delle chiese

su San Pietro e l’intera torbida mortale

 

città, da sembrare irreale?

 

 

II – STAGIONI DEL BASSO MONDO

 

 

anniversario

 

del mattutino dolo stella, maligna

e sola ancora brilli quando il primo

raggio invade la penombra e nella stanza

alligna come la vite che nell’imo suolo

alla nemica sua cugina edera viva acqua

d’amore e luce di speranza contende o rade

tardive rose nell’aiuola e nel giardino

al sole appena tiepido aperte proclive

alla passione dei sereni ultimi giorni

di maggio: nel maggiore anniversario chiara

la beltà ne godranno le tue assorte

pupille e arse lo sguardo l’interna

pena che prepara la loro vespertina

pudica morte avvertirà nel raggio

che le avvolge e dora, vita che si arrende

all’amore e alla realtà della sua santa

consumazione

 

 

III – L’AZZURRO DEL CIELO

 

...

 

Dorme, lei – lei che non dorme

mai quando i suoi cattivi

pensieri l’opprimono e inquieta

si gira e rigira nel letto, rancori

profondi ne turbano il sonno, ora dorme

forse paga del pianto che la notte piange

dietro la persiana abbassata la finestra

ben chiusa forse invece sopraffatta

da una stanchezza che perdona e addolcisce

anche l’ansia, perduta in un suo sopramondano

sogno; chi insonne soffre il proprio

dèmone attende l’alba il lucore

di un’aurora lontana che fra nembi

vuoti trovi una via rischiari le borgate

più remote le vie di popolari

periferie, che a lei doni il risveglio

presago di una domenica di pace

e di lavori domestici, a me il sonno

torbido e breve del mattino l’ozio

fra tavolo e giardino la solerte

necessità

 

...

 

IV – MARE DELLE PASSIONI

 

 

7 (UNA MUSA)

 

La mia solita febbricola, una musa

casalinga e privata

così poco mondana ma non priva

di civiltà trastulla

la noia con le fragili forme di un’ansiosa

felicità, e con la tenera rosa ottobrina

ritorna la smania di vivere l’amore

giovanile la grazia perduta di un’età

passata, il tardivo pentimento la pudica

speranza, illusione nevrotica di un cuore

già stanco e incubo quieto d’ogni nata

mattutina dilezione, ma la sorte

solitudine adduce mentre calco claudicante

le scene di un mondo di nuovo avviato

all’autunnale sperpero di vita al desiderio

di morte, malinconica attesa che è carne

di futura mestizia carità che non consola,

nel giorno nato uguale e diverso diversa-

mente amato, l’inverno mio teatro

e osservatorio quando a sera anche l’inganno

mattutino si svela rivelandosi volgare

avanspettacolo giostra corteo funerario,

la verità rivelata e corrotta una profana

ascesa ai più infimi abissi del divino

amore, tempesta preparata a redimere

il deserto, una mano due tese a toccarsi

a tentare fortuna: cosa resta da volere

e da scrivere?

 

 

9 (SIRENA)

 

Avverrà in questo terso mattutino

cielo di novembre dopo i morti anche la mia

redenzione? la vite risanguina sul viale

vena il verde del muro lo insanguina

la siepe incurabile muore, vacillante

volontà mi sospinge dopo mesi, una sirena

dopo l’altra clamanti insistenti vocalizzi,

nel fresco mattino sereno a fare versi:

clemente quiete nel giardino assolato

e solitario dopo il sonno e la notturna

pioggia, indugio in minuzie ma non devo

disperare se immagini sfocate coglie il miope

sguardo: un nido caduto guscio vuoto

annerito dall’acqua gocce-luci sui tralci

dell’edera brillanti verdi tenere o dorate

escrescenze aghi e foglie la pozza l’invaso

d’acqua morta e liquami il filare dei lauri

il rastrello e la forbice l’erba tagliata,

una lumaca vi traccia scie d’argento,

la giornata si scalda le nostre tartarughe

passeggiano caute sulla terra umida

il traffico scorre, una piena anche la nostra

vita, passano cirri e stagioni noi restiamo

abbandonati nei giorni deserti rubricati

nelle vecchie istantanee di un album

che a sera la mente risfoglia, l’età è mondo

e passato una pozza d’acqua scura

dove trote argentate crescono i ricordi

nuotando e ingrassando sfuggenti

l’esca e l’amo del presente della mia

poesia.

 

 

da LEZIONI DI RESPIRO

 

 

I – CRONACHE DELLA LUCE

 

 

*

 

alla tua fiamma appartiene la luce

del pensiero quando al risveglio spazia

acuminato quando concilia o produce

la consumazione del tempo i sensi sazi

poi che il segno la trama o delinea

come l’opera di un ragno il progetto

severo del fuoco quando affina

il legno intagliato e ne tempra il difetto

sono file filari di parole solchi e vene

nella terra arsa dell’anima che incisi

si fanno ordito e trama aeree nivee

scie nell’azzurro del cielo rotonde rive

salate del mare forme che se le svisi

perdi presto come tracce nella cenere

 

 

*

 

Traslucente al mattutino primo

lucore l’aria è lo specchio in cui misuro

e peso le offerte del nuovo mese: l’oro

vecchio della memoria e il metallo brunito

di un verso a lungo scarnito dalla punta

secca della matita l’ottusa lena e la boria

del mare i sassi levigati, contrappeso

a un futuro diverso e disadorno, un altro

anello nel cuore del pino la promessa

di nuove fioriture di rinascite…

illusioni elusive e vane regole invano

seguite, incapace d’ironia ti sei messa

su una cattiva strada mia

poesia –

 

                comunque vada la verità

e il suo rovescio hanno un destino già scritto

segnato dal ritorno a casa dove ancora

il muro di verde d’anno in anno più alto

e fitto impedirà l’evasione il salto eliso

domestico o nostra caienna volontaria

deriva o secca “ma l’amore coltiva e

cura i suoi confini: il giardino la rosa

canina la siepe di lauro la sua

mondanità” – fiore proteso sull’infimo

abisso del mondo spolpato fino

all’osso e arso il verso come stella

alpina sopravvive alla mia

siccità.

 

 

*

 

Berryman scrisse innamorato una centuria

e più di sonetti audaci appassionati –

suo modello Petrarca, un caso dubbio

secondo Pound – e li tenne per vent’anni

nell’incuria dei cassetti clandestini

come l’amore che vi era raccontato…”

anch’io (m’ero ripromesso di non scriverne

più) più per caso che per amore ne ho fatti

alcuni (doppi come ha due facce ogni umana

realtà: cuore e ragione corpo e anima

acqua e fuoco, così si dice) un colloquio

o un conflitto?” con me stesso l’aspetto

estivo e fervido d’una cosa maturata

durante l’inverno l’aprirsi d’una porta…

 

una scorta devota ai recessi della tua

mente (il poeta lui stesso stupisce del suo

ardire), come un’ospite inattesa si siede

e fa colazione insieme a noi sarà questo

la poesia? capire se il divario fra idea

e forma è dovuto a fortuite coincidenze

a fortunate interferenze a un disturbo

del pensiero o della visione; la tua prima

estate di vena dopo il Miles e un inverno

reticente, hai infilato i tuoi versi come i grani

di un rosario: a quale scopo?” non l’avevo

premeditato: furono il mio trastullo

e riposo dopo le calde mattine

sulla spiaggia le nostre soste per la spesa

 

come comuni villeggianti all’Ossostore.

 

 

II – LEZIONI DI RESPIRO

 

*

 

la mente innamorata di un’idea

la corteggia finché la possiede

e genera l’amore che con sete

di conoscenza in silenzio s’iddia

 

nel vuoto mondo (nessuna via

di perfezione gli è chiusa ma vede

allontanarsi ogni giorno le mete

più alte e il desiderio – lui medea

 

di sé – l’uccide ancora innocente

col tossico acre dell’indifferenza

e dell’errore), un mondo senza

 

salvezza dove apre ali di cera

l’idea e s’invola nell’aria leggera

sedotta dalla luce della mente

 

che la consuma, disperatamente

 

 

IL FUTURO DELLA POESIA

 

Olandese volante alla deriva sull’azzurra

corrente sera di giugno e cielo cieco

come il nostro appartenerci “quando il Bene

ci abbandona, l’Amore, e la vita non consente

variazioni… è il suo stile” tra l’edera

e i lauri del giardino i tuoi testardi

animali sensitivi s’interrano aspettando

l’acqua le foglie tremano non meno

sensitive più verdi degli anni “se non hai

cuore se non hai fede non potrai

più scrivere… tu lascia che il passato

il passato si giudichi da solo –

ti domandano versi sul futuro: qual è

la prospettiva?” l’occasione fa il poeta

 

 

su lui pesa la grazia di un passato ancora

vivo e domani e domani è come un morto

giudizio poi che natura e arte

hanno virtù… “ma non sono mai state

virtuose” e la trama sospesa la perfetta

tessitura della mente cattura quel che sa:

età e mondo “un poeta annoiato

mentre sceglie quali versi lasciare

ai suoi posteri pensa al futuro?” – pre-

visione: una busta sigillata con le ultime

volontà: DA NON LEGGERE PRIMA DELLA MIA

MORTE – gracchiando la cornacchia il nero

uccello serale preannuncia quelle nubi

oscure apportatrici di pioggia, noi sedendo

 

e conversando le osserviamo

avvicinarsi…

 

 

 

POMERIGGIO E SERA

 

Saranno queste cicale insaziabili di luce

e di sole – così esperte nell’uso

del loro strumento – sarà la stridente

melodia sempre uguale ma variata

nell’effetto – solo canto o richiamo

d’amore? – sarà il caldo pomeriggio

a destare il rimpianto sarà l’afa della casa

provocante una strana prostrazione,

sarà l’arte naturale del dolore – insinuante

anche in ore serene il ricordo e il rimorso –

sarà il suo peso lieve e insopportabile

questo studio d’insanabili incertezze

a darmi forza a permettermi nell’ora

in cui il giorno morirà di non morire ma scrivere?

 

 

III – LA SIRENA-INFANZIA

 

 

*

 

la disperata mente se dispera

di sé affida idee e altri affetti

al cuore che li rianimi e le inerti

ragioni ne ravvivi come cera

 

e cenere del mondo perché certi

giorni quando più forte l’afferra

il desiderio e l’ansia si rivela

compagna del dolore benché resti

 

vigile quanto più l’amore esalta

la volontà di sofferenza il fiato

le manca,

                però tenera si scalda

 

tanto è innamorata quando guarda

indietro al tempo che se n’è andato

e tratta le ombre come cosa salda

 

 

LATTE E SONNO

 

Nevicava. Cadeva anche la notte

su case e strade e al lume delle prime

lampade i fiocchi sembravano gocce

di miele trasparenti. Nella buia

cucina ardeva un fuoco sazio. Latte

caldo e sonno bevevo a una schiumosa

tazza mentre mia madre che cuciva

e raccontava storie era ai miei occhi

torbidi perché da stanchezza chiusi

rosa e blu nel riverbero del fuoco

e nelle tenebre fredde oltre la scala

che ora avrei salita per andare

a letto e per sognare anni futuri

fiorire presto di bellezza e d’ansia.

 

Nasceva da innocenza o impudicizia

puerili il turbamento che bambini

cugini scoprivamo in quei mattini

di neve e gelo quando appena usciti

dal sonno infreddolita mi stringeva

e toccava aspettando che le tazze

schiumose e calde della colazione

fossero pronte? Se in quelle carezze

non c’erano intenzioni né malizia

perché scaldando il latte sulla stufa

nuova dalla cucina “non toccatevi!”

nonna intimava? Se era solo il primo

ingenuo incanto perché quel piacere

intenso e breve mi tremava dentro

 

come paura?

 

 

ALTRA NEVE

 

Neve di maggio: nel silenzio ottuso

dei sentimenti colse di sorpresa

e intirizzì cuori e ragioni, avvolse

il paese adagiato sulla bianca

costa del monte e che sopra la mobile

apparenza sembrava somigliare

a quell’esile nudo di ragazza

fiorito dal risveglio – l’uno a specchio

dell’altra (che con occhi ancora pieni

di sonno sorrideva) – o era miraggio

quel languore sfinito e abbagliante

il gelido mattino presto invaso

da un dolore più acuto del silenzio

e incessante, paziente, acuminato?

 

No, non era né inganno né morgana

invernale la mossa positura

che la luce dell’alba ghiaccia tenera-

mente baciava e faceva sua –

o se lo era nel fresco silenzio

della stanza era solo per il caldo

affanno della notte che il ricordo

riaccendeva – era il docile abbandono

del bianco sopra il bianco contro il muro

di luce oltre il suo fianco più reale

di un rimorso pudico e appena vero

se all’esultante aria del mattino

potrà svanire – simile al silenzio

diventato alla luce già frastuono.

 

 

IV – FIGURE E OMBRE

 

*

 

la mente innamorata quando mira

indietro al tempo ormai andato

sale scale lunari nella sera

umida e lasca cerca le perdute

 

ombre mentre il vento le spira

contro e strappando fogli a un caduto

calendario s’ingola e s’infessura

nei riposti dell’anima in un cupo

 

abisso di dolore intellettuale

perciò freddo e abitato dal male

di cattivi pensieri avvelenato

 

da un’aria d’omissioni e pentimenti

vani se il senno svanirà coi sensi

e lunatico o alieno o stralunato

 

sulle gobbe lunari non sarà trovato

 

 

DIARIETTO FAMILIARE

 

                                                                                                        1984-85

I

 

L’ora offuscata di un gelido giorno

d’aprile andato senza soprassalti:

la tramontana non si dava pace,

la sentivamo nel cortile interno

battere le persiane e nell’aiuola

sferzare i lauri le ortensie i gerani

e il pino nano sotto la finestra,

né le piantine fiorite in ritardo

sembravano poterla sopportare,

dalla mia ansia era nata una fallace

propaggine di calma tra fatica

e riposo, Laura bambina di otto

o nove anni sedeva alla sua panca

davanti a me disegnando tranquilla:

 

un prato di montagna due figure

donna e bambina erano ferme e assorte

guardavano lontano forse a chi

le chiamava dall’ombra poi che il sole

era già basso e nascosto alla vista

dava riflessi ai vetri di una casa

rossa al pozzo a uno scivolo a una pazza

altalena o alla pioggia che rapida

s’avvicinava scendendo dai monti

dietro stormi di rondini alle gronde

dei tetti dove intanto la luna

sorgeva pallidissima… Io ero

nuovo e rinato dentro la mia ansia

che si esauriva in muta esortazione.

 

 

II

 

Creatura mia leggera, ecco tornata

la stagione che tanto sospirammo

nei lunghi giorni gelidi d’inverno;

volubile e cangiante, primavera

è come il tuo sorriso di bambina

o l’umore che oggi ne disegni

in pioggia gronde rondini fratello

sole e sorella luna, tu e tua madre.

(Se siete voi le due figure ferme

sul prato perché io non sono al vostro

fianco? E chi guardate così assorte

avventurarsi o perdersi lontano

uscito dalla vista dietro il filo

del tetto? A cosa, a cosa stai pensando?)

 

E che pensi di chi ti siede – intento

a pensieri segreti tanto poco

adulti tanto più sentimentali

per un poeta che oggi dal dolore

i suoi succhi distilla come l’ape

il nettare dai fiori – di chi intento

più di te al tuo disegno ti siede

dietro quando ti volgi e lo guardi

seria senza sorridergli? E perché

ora alle tue figure aggiungi il male

umano di quell’ombra che s’allunga

sui giochi e sulla casa e li minaccia?

Di chi è la figura fuori vista

a cui l’ombra appartiene che vi volge

 

le spalle e s’allontana? E dove va?

 

 

IMITAZIONE

                                                                                    per A. B., ancora

 

Se un giorno mi lascerò, fuggendo

da questi viali di platani malati

e lungotevere invasi di traffico,

alle spalle la città nella tua Parma

verrò e salendo ai monti Casarola

raggiunta mi vedrai seduto

sulle sue pietre a piangere il fiore

della tua poesia per sempre caduto,

ma oggi nel caldo di un mattino

di giugno cercando invano parole

che curino il dolore esco in giardino

a osservare la piccola famiglia

di tartarughe – genitori e figli –

sostare quieta in un cerchio di sole.

 

Questo di tante speranze mi resta

oggi: il calore di un pallido sole

che illude tutti, i testardi animali

corazzati contro le offese naturali

e anche i poveri poeti indifesi

e pieni di un’angoscia che rinnova

il dolore premendo sullo sterno

e soffocando il cuore ma lasciando

la mente presa nella rete dei suoi

ragionamenti… L’estate vicina

già punge con questi primi raggi

domenicali. Non serve e non vale

oggi incidere versi se in giardino

anche il merlo riposa sugli allori.

 

 

da ORE DORATE

 

 

TRIUMPHUS CUPIDINIS

 

Più sussurro che voce erano i versi

il trionfo di un eros che non conobbe

mai resa appagandosi solo se gli occhi

voraci si saziavano – complice la luce

matura del primo pomeriggio penetrante

dalle tende semichiuse nella camera guscio

vuoto in cui l’amore si accuccia nei giorni

estivi – del tuo corpo bruno di sole acre

di sudore e di sale quando stremata «lasciami

riposare» pregavi ma convinta e vinta

dalle carezze che la lingua ai tuoi golfi

umidi e colli prodigava ti piegavi

e ti aprivi per accogliermi ardente

brace languente cera…

 

 

IL RISVEGLIO

 

Il sonno si smarrisce sulla soglia

trasparente dell’alba, si risveglia

un altro giorno al rumore feriale

del traffico arrembante sulla nera

curva che falcia il parco dove i cani

si rincorrono liberi, al frastuono

dei clacson impazienti, delle voci

invadenti che imprecano e disturbano

dalla strada o dal parco, dei richiami

delle cornacchie tra i rami dei pini,

del chioccolio della badante slava

che aiuta la padrona e l’accompagna

in bagno o che si lava, col contorno

dei soliti rumori: l’acqua aperta,

il ticchettio dei suoi tacchi sonori,

il trillo della sveglia, poi lo squillo

del telefono, il «pronto!», quel vocio

stridulo, mentre in alto gli operai

salgono sui ponteggi, ecco ripreso

il lavoro, ora penso.

                            Ma non apro

ancora gli occhi, m’avvicino sfioro

il suo fianco col fianco la sua gamba

con la mia: basta questo, trascolora

la notte in un mattino d’esiliata

solitudine ed ore tutte d’oro

s’annunciano agli occhi assonnati

se aprendosi a un sereno senza nubi

e pioggia avrà il celeste sole e aria

pungente per accoglierci se uscendo

insieme andremo per le strade, lenti

i suoi passi nel fulgore di vetrine

e specchi (ma che cosa, dio del vento,

sussurrerai all’orecchio della nube

che come un bianco otre verserà

lacrime di dolore o di dispetto

sul parco sulla strada sul giardino

quando nel pomeriggio cibo e amore

avremo consumato e sarà presto

e sarà tardi per il sonno?).

                                        Intanto

il traffico si acquieta e dalla strada

tace il rumore, l’eco delle voci

degli operai dai ponti s’allontana,

la donna slava è uscita, nel silenzio

che piove in casa m’alzo: lei è sveglia

ma chiusa come un pugno in mezzo al letto

indugia nel tepore: ha freddo? ha ancora

voglia di sonno. So quel che dirà

appena alzata: «no, non ho dormito

neanche un’ora stanotte, solo all’alba

ho preso sonno… ma poi quei rumori

feroci, assurdi!»

                        L’ansa di silenzio

s’è schiusa presto ed è ripreso cupo

l’andare consueto e assonnato

del traffico feriale: ah, ma se invece

improduttive saliranno le ore

di questo giorno di febbraio freddo

ma chiaro e lasceranno ansia e salive

arse nei tuoi pensieri, solo in lei

spera per la salvezza, solo lei

avrai che accenda il fuoco nel tuo petto

e il suo respiro per tenerlo vivo

ancora e ancora…, penso.

                                    Ora il mattino

nasce con questa fede e questo coro

profano di rumori che accerchia

la casa e il risveglio mettendo

ansia nell’aria azzurra che rischiara

dolcemente la stanza e nei suoi occhi

ancora chiusi al saluto del giorno.