La Poesia italiana del Novecento - The italian Poetry of the 20th century

Vittorino Curci


 


Poeta e sassofonista di musica improvvisata, Vittorino Curci è nato nel 1952 a Noci (Bari), dove vive. Le sue ultime raccolte di poesia: La stanchezza della specie (LietoColle, 2005), Un cielo senza repliche (LietoColle, 2008), Il frutteto (LietoColle, 2009), Il pane degli addii (La Vita Felice, 2012), Verso i sette anni anch'io volevo un cane (La Vita Felice, 2015), Liturgie del silenzio (La Vita Felice, 2017). Ha anche pubblicato un libro di poetica, La ferita e l’obbedienza (I libri di Icaro, 2008) e uno di racconti ispirati da luoghi e personaggi della sua terra, Era notte a Sud (Besa, 2007). Collabora alla rivista Nuovi Argomenti.


E-mail    vittorino.curci@gmail.com





da Il frutteto

 

 

LITURGIA DEL BUON PRINCIPIO

 

La coscienza castigante impedisce il volo a destra

con scudisciate d’aria

e scricchiolii stellari che spaventano le greggi.

La tua è la spesa frugale di un timido – cose

che prendi dai romanzi e metti in salvo

dal tutto che rovina - ma per una volta, per una

sola volta potrai svettare

sulla tua figura inerte

fino a scorgere i semi buoni

di un tempo irragionevole.

Sarai il custode della roccia che si guadagna la sera

soffiando sulla materia oscura, sulle inadempienze

di un padre a mezza strada. In un brivido

delle vertebre riconoscerai

ciò che è sempre stato tuo - in un luccichio di vetrine

a dicembre, la prima ruga sul viso di tua madre.

Sarai una lastra di pietra incisa, l’allegoria cresciuta

come dogma tra le mani, un ricettacolo

di primizie che – come la vita – non si può definire.

 

Che le tue parole siano redente e pure.


 

 

1932

 

È lui sempre lui che comincia

Dal gocciolio di luce che

Trasfigura il cielo ruvido sugli orti

Nel punto esatto di torsione tra

Modernità e Mercato

Dove con acqua fiumana e virgole

Con una benda sugli occhi

Il giovane soldato si affranca

Dalla dittatura dei morti

Comincia ma non mostra subito

Il suo volto e allora io mi chiedo

Se c’è qualcuno qui che possa dirmi

Chi tra vent’anni sarà mio padre

 

 

SEMPRE SUL PUNTO DI NON FARCELA

 

Il vecchio lume a petrolio per dare luce ai passi

all’acqua

al bianco e nero naturale

di una terra dimenticata.

Tra gli invisibili strapiombi della noia

l’algoritmo del mio cercare

si accampa in discesa

dove c’era un pozzo di cemento pittato a calce.

Tormento e passione

erano crepe sul solaio

e le notti di giugno lì tremava ancora

il contropelo della tramontana sul bosco, lo spavento

di un’ombra maldestra, la lotta giornaliera di un uomo

piegato sui filari.

E allora io chiudevo gli occhi per vedere lontano

lontano

nella geografia screziata del tempo

dove un giorno sarei stato

e ciò che lasciavo per poco nel buio

veniva inghiottito dal nulla e rifatto

per me solo.

Erano belli gli occhi per guardare

belli gli avamposti segreti, i gessetti colorati nelle tasche

i disegni ultimi delle cose

da donare all’angelo dei bruchi. E volevo parole

per dire questo, dirlo a tutti

dal letargo secolare dei pendii.

 

 


PRIMO FORMICOLIO DI UN RICORDO FOSSILE

 

Entrato nello stadio ha contezza di quanta

forza abbia ancora nelle gambe

ma qui dove siamo, nel mistero gaudioso

di un figlio, non posso essere io

a raccontare ogni cosa nei dettagli.

Tra queste rocce scartavetrate in basso

la lingua dei conflitti ha il fondo ben coperto

di colore e questo mare che non sembra mare

è soltanto un crudele impietrimento di voci.


 

 

DA UNA VEGLIA IN PROSA

 

 

                                        Ah, la dolce terra dove potrai dire – qui

                                        ho concepito, qui fui concepito…

                                                                        Mario Santagostini

 

 

Allertato dal tuono mentre il nonno guarda una carta

di giornale e io i più grandi fiocchi di neve che così grandi mai

sono caduti sulla terra

se non fossi vestito di carne

il mio cupo tintinnio di ossa

invocherebbe un atto di grazia alle trombette carnascialesche

del giudizio

perché io la solitudine la conosco e devo dirlo cos’è questa bava

rappresa del ’53 che traccia un futuro senza requie. E a chi

devo dirlo? Al plebeo girovago

che batte il dito sulla tempia

o al fumatore di oppio con le scarpe lucide e i polpastrelli crespi?

Se penso al mattino del creato

quando le cose furono toccate da uno sguardo per la prima volta

io sono contento di tornare sui miei

passi, in un guanto smagliante di lattice

pieno gonfio di scontrini, in una luce casalinga direi capovolta.

Ecco nonno cosa affiora da una veglia

in prosa per chi orme non vede ma prove

di insolenza e un chicco di grano marcito. Sottoterra e sui tetti

due soli comandamenti e il brivido

di una lingua povera che inciampa sul velo nuziale che vola.

Su… cerchiamo guardiamo…

non siamo saliti fin qui

per niente”.

 

 

 

da Il pane degli addii

 

 

PARTORITA DA UN BLOCCO LEVIGATO

 

Pennellate bianche sull’asfalto

e una provvista di riflessi sul piumaggio dei divi

per future battaglie verbali.

Tutto quello che non sei mi porta a te, e forse

non guasta spostare il peso da una gamba all’altra

per ormeggiare al sicuro le nostre paure, perché tu

non chiedi gratitudine, ti accontenti di vedermi tranquillo

la tua ricompensa è l’invisibile corrimano

nella piana dei caduti.

Seduta sul muretto

guardi la linea sbilenca dell’orizzonte dove

riconosci a stento l’idolatria erosa dal tempo, una fioritura

tardiva, i nomi sillabati di quelle città lontane

che non vedremo.

 

 

IL PROCLAMA DEI FOGLI

 

Devi ciò che vedi

come un dio benpensante delle sfere cosmiche.

La tua lingua ponderata è un tracciato di danza

che tormenta gli inseguiti.

La telecamera inquadra i sacchi neri

sui binari, i due infermieri, il pendio

dove si assiepano i curiosi,

e tu potresti persino gioire di quel che sei

e sussurrare a tutti, inascoltato, che il mondo

non ha bisogno di noi per essere detto.

Ma nuoce, la giustizia degli uomini, al giovane corpo

che viene dal contado col vestito buono della festa

conservando di te una foto in cui ridi.

 

 

UN ABBAGLIO AFFERRABILE

 

I cavalli si staccano dai fondali e saltano

in questo dormiveglia dove

due occhietti sbirciano il dio della faglia

con la calma di una

misericordia appresa.

L’ocra del foglio viaggia nel grido sopito

della terra fino a cadere

sulla scena mentale dei volti offesi.

Un’evidente lacuna ha spiegato

la potenza del nuovo ordine

come replica spaziosa di pagine già scritte.

 

Al bambino fiorito sulla stuoia

di piombo, che piange con tutto se stesso

nella notte cupa del verbo andare,

basterebbe una mossa affrettata

contro il tempo, lo scoccare

di un scintilla, ma non ha che il suo

guardare da lontano i pensieri capovolti

in un involucro di vita.

L’indistinto stupore di esserci

abita qui, nel gesto che parla a tutti

e a ciascuno con le labbra screpolate

da una luce infetta.

 

 

UNO STUPORE INDIVISIBILE

 

La sagoma di gesso del primo

arrivo - la gola arsa di una formula

verticale a mezza strada – quando

è indubitabile che non si è

mai pronti – una voragine perfetta

nell’officina dei suoni.

A occidente i reattori di questa

modernità con le funi bagnate

suonano le trombe dell’acclamazione

convertono i teatri del sacro

in luce stellare.

Il grigio dell’asfalto cade a pezzi

sugli scarponi di un dio che pastura

le greggi nelle ore di nebbia.

I cattivi presagi bucano l’alba dei romeni

con le sirene mute delle ambulanze.