Brunella Bruschi è nata nel 1947 a Perugia, dove è scomparsa nel 2015. In poesia ha pubblicato le raccolte: Gioco d’attesa (Umbria editrice, 1983), Testi pretesti lineature (Fonema, 1989), Il bistro e la sabbia (Thyrus,1997), Drama (Tracce, 2001), Deep focus (Guerra, 2005), Lune persuase (Fara, 2007), Befane, maghi, rospi, rane e… altre creature per niente strane (Reactiv,2008), A che titolo (Morlacchi, 2010), Elementi d’amore (Morlacchi, 2011), Punto Smirne (Morlacchi, 2013). Suoi testi sono stati tradotti in diverse lingue. Ha pubblicato diversi studi critici su autori di rilievo del Novecento e contemporanei, come Borges, Caproni, Penna, oltre ad una raccolta di saggi sui poeti italiani degli anni Sessanta, Parler de loin (Helicon, 2010), in seguito al Premio Il Casentino. Traduce poesia dal latino e dal francese. Ha fondato l’Associazione culturale Il Merendacolo insieme a poeti di diverse nazionalità, organizzando incontri pubblici con i più celebri autori italiani del nostro tempo. Ha partecipato al festival della letteratura di Mantova e al festival de la Meditérranée a Lodève. Ha vinto numerosi premi tra i quali il Sandro Penna, il Montale e il Nuove Scrittrici. È stata insignita del titolo di Poeta Umbro dell’anno. Dirige la collana di poesia delle edizioni Morlacchi “La Chioma di Berenice”.
E-mail brunellabruschi@gmail.com
Il nome è l’assenza
il macigno della tua pena
che ci separa dalla vita
è pietà che vuol mettere in salvo
la schiva vastità del tuo sorriso.
Il nome è la cancellatura
di chi vorrebbe dire l’amore
e l’ha lasciato nei giorni.
Dei fiori non coglievi il nome
ma l’incontro fra dono
e promessa
fra colore e carezza.
Calpestavo la nebbia
e il suo odore
mi penetrava nella mente
bevevo le ossa mute
del dolore
capivo di essere nel torto
perché ero viva
e cercavo parole giuste
per ogni cosa.
Mia madre aveva un volto
invadente
consumava l’aria
aveva da fare cose
così giuste
e mio fratello piccolo
le dava la mano
e ascoltava
invece era una cosa mia
un gingillo grazioso
un verme imbelle senza
un suo segreto.
La mia mano cercava qualcosa
quando ha colpito
all’impazzata
voleva un senso lavava
l’ingiuria.
Con labbra di porpora sorridevo
perché i prati sono ovunque
uguali e la voglia di vita
diventa vita in una terra diversa.
Quando nasceva il giorno
correvo a riempirlo di me per
averne in cambio
parole da coniugare al futuro.
Com’era dolce decifrare il labirinto
delle medioevali vie
dei volti che sembravano familiari
quello delle pagine aperte
verso la miniatura del Subasio…
Sembrava una come un’altra la sera
che il sorriso si mutò in orrore
e l’anima cadde a terra
d’improvviso frantumandosi
in quel fiume di porpora
sulle labbra e sul viso.
da Elementi d’amore
Il tempo senza profondità
il luogo non più dimora d’aperte finestre
soppressa la dignità del concetto
la verità d’essere per qualcosa
un fascio di dolore
la dispersione dei sensi
che stringono negli occhi
la tumida parèsi del mondo
io volto dissipato a un balcone di Magritte
stringo il tuo corpo che muore
ascoltando la mia flebile
“oh mein papa”
Una vela è il mio sogno di volti
amati un tempo
nella dissolvenza d’aria marina
non c’è evento
tutto accaduto prima
un soffio d’uccelli in volo i nostri corpi
e una dolcezza acuta nella pelle
meravigliata e paga del luogo intatto
(dell’interiore consistenza di quel fatto)
Al risveglio certa d’avere quello
che ho perduto
rammento ai miei silenzi
quanto amore
sia amore dell’amore
Magari queste innervate foglie
che nella trasparenza
consumano l’aria
fossero l’humus d’un volo d’amore
i versi le sinapsi
in cui s’incontra il mondo
che dagli occhi va al cuore
e tu a un risveglio d’astri
scoprissi che ha più vita la morente
foglia che la gemma
da Punto Smirne
pietre in festa
i piccioni sono pietre in festa di città vecchia
corpi affaccendati alla procreazione
caldi e frettolosi come tutti i secoli
che affrescano cattedrali d’arte
sono cosi mischiati alla vita
anche nelle sue nuvolose opacità
cosi immotivati a perdersi in segnali
da eccitarne senza posa le più sottili sonorità
senza squarciare l’aria
con quel tubare consapevole
che asseconda la misura delle cose
passi
saltellano talvolta sui sentieri
come gallinelle in lutto
o corrono a piedi sull’asfalto
per salvarsi dimenticando le ali
controfigure opache dell’altezza
i merli sembrano non credere
al riscatto del volo
e nella terra vanno a cercare
in silenzio le domande
luce di bianco e nero
sfila a sorpresa la gazza
con luce di bianco e nero
e un soffio azzurro d’aria vespertina
piuma in cresta non predatrice
ma offerta di fuggevole bellezza
in un esule grido del pensiero
(a che ci motivano gli uccelli
se è necessario sapere
che per nessuno c’è un compiuto volo?)
scorie
la fontana non è puro zampillo
(canale pervio di viva memoria)
il ristagno a volte l’ammutolisce e la snatura
(la patina vischiosa del tempo che non sa fluire)
residui del pulviscolo piume d’alati lontani
materia nell’aria che non si estingue
ho imparato a tirar via con la carta il residuo
(salvare il passaggio che percorre anche l’oggi)
a pensare che appena sotto il visibile stallo
qualcosa sia ancora duttile palpabile la sostanza liquida
si possa almeno alleggerire la solida col dirimere
la plastica dalla carta
esaminare l’indifferenziato amore
perché diventi almeno compos la sua materia organica
il sacco
forse l’attività del distinguere
e differenziare ponendo intorno contenitori
dai colorati indizi
è il senso del restar qui
a riempire e vuotare il giorno
a cambiare con faticosa cura il sacco
e occupare le cose come per l’eternità
steli recisi
parole divise steli recisi come i minuti
che non più si susseguono
né si dispongono dentro le linfe dell’essere
a sostenere il fiore
un’elica sfrangiata di acido desossi-ribonucleico
impazzita nell’ossessiva vocazione all’identità
la distorsione diventa abnorme volto grottesco
la storpiatura in cui senza tregua
ogni giorno ti imbatti prima di ricominciare
a raccogliere uno per uno i frammenti del fare
le mie mani che scavano
luna con la veletta
che non si commuove del cielo
ambiziosa e forte come roccia
disseta la sua luce
fa tremare l’alone delle sue promesse
con tutto il cielo vorrei fare l’amore
con tutta me stessa
percorro stringendo le palpebre
i paesaggi della terra
quelli dell’immaginazione che vive di solitudine
ma lei non lo sa non si cura
del palpito notturno
non vede i miei occhi prigionieri
le mie mani che scavano
punto smirne
nodo di fili ripresi e portati avanti
un ricamo di fattura orientale
la stesura del colore e del comporre vita
nelle sottili crune negli usi e nei costumi
che consolano il tempo
tutto -ebbi a dirti- ha il suo corso
e dei precisi criteri di compimento
non si sa raccontare il punto
il punto lo conosci se lo hai eseguito
corona
le mani perenni intorno alle cose
nell’ ardimento con quel gioioso tormento
hai dato corpo al mondo
da fitte solitudini e femminili rituali di sciamano
hai dato a noi il dono di un ruvido canto
che è pudore dell’amore
e nella macchia trova le sue spore
le appartenenze
con la naturalezza di far fronte in marcia
senza mai abbandono
tutto è di ritmo e suono
(a gladys)
ti voglio bene amica
che l’alma vita sgretola insieme
ma più concede ai cuori il giorno dopo
e indora il voto di poesia in cammino
ti porto l’acqua d’ardua fonte
con te sto in ascolto
perché tutto è di ritmo e suono
di dolore e riso
nel ricamo d’amore e d’abitudine
(anche bistrarsi gli occhi
per farsi beffe della solitudine)