Antonella
ANEDDA
Antonella Anedda (Anedda-Angioy) è nata nel 1958 a Roma. Vive tra Roma e la Sardegna. Ha collaborato con riviste e giornali quali Il Manifesto, Linea d’ombra, Nuovi Argomenti. Ha pubblicato il libri di versi: Residenze invernali (Crocetti, 1992, premio Sinisgalli); Notti di pace occidentale (Donzelli, 1999); Il catalogo della gioia (Donzelli, 2003), Tre stazioni (LietoColle, 2005); Dal balcone del corpo (Mondadori, 2007, Premio Napoli); Salva con nome (Mondadori, 2012, Premio Viareggio). In prosa: Cosa sono gli anni (Fazi, 1997); il libro di traduzioni e poesie Nomi distanti (Empiria, 1998, con una nota di Franco Loi); La luce delle cose (Feltrinelli, 2000); La vita dei dettagli (Donzelli, 2009). E’ presente in antologie italiane e straniere.
POESIE
da RESIDENZE INVERNALI
III
Prima di cena, prima che le lampade scaldino i letti e il fogliame degli alberi sia verde-buio e la notte deserta. Nel breve spazio del crepuscolo passano intere sconosciute stagioni; allora il cielo si carica di nubi, di correnti che sollevano ceppi e rovi. Contro i vetri della finestra batte l’ombra di una misteriosa bufera. L’acqua rovescia i cespugli, le bestie barcollano sulle foglie bagnate. L’ombra dei pini si abbatte sui pavimenti; l’acqua è gelata, di foresta: Il tempo sosta, dilegua. Di colpo, nella quiete solenne dei viali, nel vuoto delle fontane, nei padiglioni illuminati per tutta la notte, l’ospedale ha lo sfolgorio di una pietroburghese residenza invernale.
Ci sarà un incubo peggiore
socchiuso tra i fogli dei giorni
non sbatterà nessuna porta
e i chiodi
piantati all’inizio della vita
si piegheranno appena.
Ci sarà un assassino disteso sul ballatoio
il viso tra le lenzuola, l’arma posata di lato.
Lentamente si schiuderà la cucina
senza fragore di vetri infranti, nel silenzio del pomeriggio invernale.
Non sarà l’amarezza, né il rancore, solo
per un attimo le stoviglie
si faranno immense di splendore marino.
Allora occorrerà avvicinarsi, forse salire
là dove il futuro si restringe
alla mensola fitta di vasi
all’aria rovesciata del cortile
al volo senza slargo dell’oca,
con la malinconia del pattinatore notturno che a un tratto conosce
il verso del corpo e del ghiaccio
voltarsi appena,
andare
da NOTTI DI PACE OCCIDENTALE
I
Vedo dal buio
come dal più radioso dei balconi.
Il corpo è la scure: si abbatte sulla luce
scostandola in silenzio
fino al varco più nudo –al nero
di un tempo che compone
nello spazio battuto dai miei piedi
una terra lentissima
– promessa
III
Per trovare la ragione di un verbo
perché ancora davvero non é tempo
e non sappiamo se accorrere o fuggire.
Fai sera come fosse dicembre
sulle casse innalzate sul cuneo del trasloco
dai forma al buio
mentre il cibo s’infiamma alla parete.
Queste sono le notti di pace occidentale
nei loro raggi vola l’angustia delle biografie
gli acini scuri dei ritratti, i cartigli dei nomi.
Ci difende di lato un’altra quiete
come un peso marino nella iuta
piegato a lungo, con disperazione.
XIII
a Nathan Zach
Anche questi sono versi di guerra
Composti mentre infuria, non lontano, non vicino
Seduti di sghembo a un tavolo rischiarato da lumi
Mentre cingono le porte di palme
Anche questo è un canto verso Dio
Che chini lo sguardo sui suoi vermi e ci travolga
Amati e non amati.
Non una tregua – un dono
Per questa terra folgorata.
*
Siedi davanti alla finestra
Guarda, ma accetta la disperazione:
c’è verità nella luna che sale
eppure non si alza a scudo sul dolore
si traduce –
come ho appena tradotto il libro aperto verso il muro –
semplicemente unisce il tavolo al pensiero
in un’attesa che arde ma non spiega
e tormenta ogni foglio dentro l’aria
con musica di abeti, luci ostili.
*
Ora è solo pioggia che benedice la strada
e nell’acqua che trema quasi una luce redenta da seguire.
Sarà una piccola distanza dal fulgore.
Dal forno dove il cibo si innalza
alle nuvole brune
tutto appena diverso dalla vita di sempre:
uno scarto nel gesto che depone i piatti per la sera
una luce nella crepa del muro
schiusa verso terre di pace.
Fuoco di cedro lungo i bordi del campo.
Così vedremo i volti degli assenti
le iniziali dei nomi travolte dai lapilli
nessun dolore ma il moto delle mani
che allontanano il fumo
e notte tra la notte: una fessura.
a Sofia,
19,11,1993
Davvero come adesso, l’ulivo sul balcone
il vento che trasmuta le nubi. Oltre il secolo
nelle sere a venire quando né tu né io ci saremo
quando gli anni saranno rami
per spingere qualcosa senza meta
nelle sere in cui altri
si guarderanno come oggi
nel sonno – nel buio
come calchi di vulcano curvi nella cenere bianca.
Piego il lenzuolo, spengo l’ultima luce.
Lascio che le tue tempie battano piano le coperte
che si genufletta la notte
sul tuo veloce novembre.
da RESIDENZE INVERNALI
II
Sui vetri appannati dal freddo passavano ombre confuse. Nel cielo, oltre le case, salivano fuochi d’artificio. Quando le lancette degli orologi raggiunsero le dodici, da uno dei letti vicino alla finestra venne una breve risata infelice.
E’ scesa una notte orientale, si è incollata sui tetti.
Di colpo come nei presepi
da una fessura del cielo è precipitata la neve.
Davanti alla sponda del letto sfilavano silenziose le renne
contro il legno degli armadi ardevano i fuochi dei lapponi
fuori crepitavano rami e bottiglie
bruciavano alberi di natale:
legno e vetro, segreto scintillio di carte.
E’ arrivato il Capodanno.
Noi abbiamo vegliato senza fatica, semplicemente
La luna spezzava le travi, l’ombra di una calza velava il cortile,
ogni lume era spento.
Gennaio lascia nelle isole
gusci di riccio sugli scogli
e tesa luce sulle secche invernali.
Come una desolata corona di pietra
in un naufragio polare
lastre di granito e chiuse lapidi
nell’acqua e in terra
oltre il promontorio della Trinita
dentro il recinto del cimitero.
Vi chiedo coraggio: sognate con la dignità degli esuli
e non con il rancore dei malati
cancellando la visione dei muri e della neve
trasformando l’ombra sporca dei fiocchi e la sagoma scura dei gabbiani
con l’animo teso dei marinai
che ammutoliscono al sollevarsi dell’onda
e pregano
raccolti nel cesto del vento.
Un filo d’acqua scende nel lavabo
Il ghiaccio riga le finestre
ed è difficile pensare al soffio marino
e l’urtare dei carrelli
e il fischio di sirena mattutino
non contemplano nessun eroismo.
Eppure, distesi sulla misteriosa rotta dei letti
noi siamo nello stesso splendore
della marea che si placa
vicinissimi al nodo che l’acqua finalmente distende.
La nave salpa e cammina
ed è un quieto santuario.
da NOTTI DI PACE OCCIDENTALE
XIV
Benedetta tu a distanza
la più innocente tra le cose lontane
nicchia di tavolo e mela
una sfera un piano e contro l’alta fiamma del fuoco
le due forme congiunte a scavare il nitore di un vano.
Nulla in realtà ci chiama
eppure ci accostiamo agli oggetti
quasi fossero gli echi di una voce
l’annuncio indifeso di altre vite.
L’acqua nera, la sagoma del cane contro il molo.
Nessuno può dirli ricordi e fischiare davvero come allora
ma noi vediamo le tre stanze, lo scatto
di chi ancora viveva
e a un tratto gli armadi ci rimandano
un fuoco errante la stella incerta di un viso.
Nulla è compiuto nulla è ancora profondo.
C’è solo il tonfo di una calce improvvisa
e queste grida tra felci che sferzano le schiene
grida che non capiamo come accade nel buio agli inseguiti.
Alberi, corpi, folate contro i muri.
Basta un gesto: il rovescio di un gomito che spegne una candela.
Di colpo diventiamo ciò che aveva tremato.
VI
Non esiste innocenza in questa lingua
ascolta come si spezzano i discorsi
come anche qui sia guerra
diversa guerra
ma guerra – in un tempo assetato.
Per questo scrivo con riluttanza
con pochi sterpi di frase
stretti a una lingua usuale
quella di cui dispongo per chiamare
laggiù perfino il buio
che scuote le campane.
***
C’è una finestra nella notte
con due sagome scure addormentate
brune come gli uccelli
il cui corpo indietreggia contro il cielo.
Scrivo con pazienza
all’eternità non credo
la lentezza mi viene dal silenzio
e da una libertà – invisibile –
che il Continente non conosce
l’isola di un pensiero che mi spinge
a restringere il tempo
a dargli spazio
inventando per quella lingua il suo deserto.
La parola si spacca come legno
come un legno crepita di lato
per metà fuoco
per metà abbandono.
VIII
Forse se moriamo è per questo? Perché l’aria liquida dei giorni
scuota di colpo il tempo e gli dia spazio
perché l’invisibile, il fuoco delle attese
si spalanchi nell’aria
e bruci quello che ci sembrava
il nostro solo raccolto?
IX
a Zbigniew Herbert
E’ vero, l’allarme si alza dalle stelle
l’argento non ha luce sul barbaro grido di terrore.
L’imperatore ha spento il lume
ha chiuso il libro.
In basso la terra scuote l’orlo dei vasi e il ferro brucia
freddo sui fili. Lui dorme nel quadrato dei secoli
alti nel vento come aeree gabbie.
Non sente il bronzo del trono sulla nuca
né il rintocco dei chiodi sulle porte.
Dormirà per sempre.
Perciò sospendi tu la quiete
prova a rovesciare il dorso della mano
a raggiungermi nel nome di una lingua sconosciuta
perché parlo da un’isola
il cui latino ha tristezza di scimmia.
Un mare una pianura, nuvole di tempesta contro i fiumi
uccelli nel cui becco gli steli annunciano alfabeti.
Forse solo così – Zbigniew
può viaggiare il cesto dei libri sulle acque
così credo giunga la voce
la stretta del viso nell’orrore
fino a un’orma fenicia, a un basso scudo
privo – come il tuo – di luce.
da NOTTI DI PACE OCCIDENTALE
In una stessa terra
a Mauro Martini
Se ho scritto è per pensiero
perché ero in pensiero per la vita
per gli esseri felici
stretti nell’ombra della sera
per la sera che di colpo crollava sulle nuche.
Scrivevo per la pietà del buio
per ogni creatura che indietreggia
con la schiena premuta a una ringhiera
per l’attesa marina – senza grido – infinita.
Scrivi, dico a me stessa
e scrivo io per avanzare più sola nell’enigma
perché gli occhi mi allarmano
e mio è il silenzio dei passi, mia la luce deserta
– da brughiera –
sulla terra del viale.
Scrivi perché nulla è difeso e la parola bosco
trema più fragile del bosco, senza rami né uccelli
perché solo il coraggio può scavare
in alto la pazienza
fino a togliere peso
al peso nero del prato.
TRADUZIONI
(translated by Anamaría Crowe Serrano with Riccardo Duranti)
I
I see from the darkness
as from the most brightly lit balcony.
The body is a hatchet: it falls on the light
pushing it in silence
to the most naked path – to the blackness
of a time that is making
in the space my feet have trampled
an extremely slow promised
land.
III
To find the reason in a verb
because it really isn’t time yet
and we don’t know whether to come running or to flee.
You fall like a December evening
over the boxes lifted on the wedge of removal
you give form to the darkness
as food flares out on the wall.
These are the nights of western peace
in their rays the anguish of biographies flies
the dark grapes of portraits, the scrolls of names.
Another stillness defends us from the side
like a sea weight in jute
folded over time, with desperation.
XIII
for Nathan Zach
Even these are lines of war
written while it rages, not far away, not close by
and we sit at an odd angle around a lamp-lit table
as they deck the doorways with palms
even this is a song unto God
that He may lower His gaze upon us worms and trample on us
loved and unloved ones alike.
Not a truce – a gift
for this lightning-struck land.
*
Sit in front of the window
look, but accept desperation:
there is truth in the moon that shines
though it does not rise shield-like against pain
it translates itself –
as I have just translated from the open facing the wall –
it simply links the desk to thought
in a wait that burns, but does not explain
and it torments every page in the air
with fir tree music, hostile lights.
( traduzione in tedesco di Irmela Heimbächer)
Winterresidenzen
II
Auf den von Kälte beschlagenen Scheiben erschienen unklare Shatten. Am Himmel stiegen Feuerwerke hinter den Häusern auf. Als die Uhrzeiger auf zwölf zeigten, erklang aus einem der Betten nahe dem Fenster ein kurzes, unglückliches Lachen.
Eine orientalische Nacht ist hereingebrochen, ganz plötzlich
hat sie sich an die Dächer geheftet wie bei den Krippen
ist aus einem Spalt des Himmels Schnee gestürzt.
Schweigend zogen an den Bettkanten Rentiere vorbei
am Holz der Schränke entzündeten sich die Feuer der Lappen
draußen knisterten Zweige und Flaschen
Weihnachtsbäume brannten:
Holz und Glas geheimes Papiergeflimmer
Es ist Neujar.
Wir sint mühelos aufgeblieben
nur
der Mond durchbrach die Balken
der Shatten eines Strumpfes verbag den Hof
alle Lichter waren aus.
Januar läßt auf den Inseln
Seeigelgehäuse in den Klippen zurück
und Licht das sich
über die trockenen Wintertage verbreitet.
Wie eine öde Steinkrone
bei polarem Schiffbruch
Granitplatten und geschlossene Grabsteine
im Wasser und in der Erde
jenseits des Vorgebirges der Trinität
in der Umzäunung des Friedhofes.
Ich bitte euch um Mut, träumt
mit der Würde der Verbannten
und nicht mit dem Groll der Kranken,
wenn ihr das Bild von Mauern und Schnee auslöscht,
den Schatten der Flocken
und das dunkle Profil der Möven austauscht
mit der überspannten Seele der Seeleute,
die beim Aufsteigen der Welle verstummen
und vereint
im Korb des Windes beten.
Ein dünner Wasserstrahal fließt ins Waschbecken
Eis streift die Fenster
und es ist schwer an die Meeresbrise zu denken
und das Aufeinanderstroßen der Rollgestelle
und der Pfeiton der Sirene am Morgen
haben nichts von Heldentum.
Und doch, ausgestreckt auf den geheimnisvollen Kursen der Betten
stehen wir unter dem gleichen Schimmer
der Gezeiten, die sich beruhigen,
dem Knotenpunkt ganz nah, den das Wasser endlicht löst.
Das Schiff läuft aus und fährt,
und es ist ein ruhiges Heiligtum.
(traduzione di Irmela Heimbächer)
XIV
Gesegnet bist du auf Abstand
die unschuldigste unter den entfernten Dingen
Tischnische und Apfel
eine Kugel, eine Fläche und gegen die hohe Feuerflamme
beide Formen zusammen um die Helle eines Raumes hervorzuheben.
Nichts fordert uns wirklich
und doch näheren wir uns den Gegenständen
als seien sie das Echo einer Stimme
die arglose Meldung anderer Leben.
Das schwarze Wasser, das Profil des Hundes zur Mole hin.
Niemand darf sagen erinnere dich und wirklich so pfeifen wie damals
aber wir sehen die drei Zimmer, das plötzliche Auffahren
dessen, der noch lebte
und auf einmal werfen die Schränke
Ein Irrfeuer zurück, den undeutlichen Stern eines Gesichts.
Nichts ist vollendet, noch ist nichts ernst.
Es gibt nur den dumfen Laut eines jähen Kalks
und diese Schreie zwischen Farnen, die die Rücken peitschen,
Schreie, dab wir nicht verstehen, was den Verfolgten im Dunkeln
zustößt.
Bäume, Schläge, Böen gegen die Mauern
Es genügt eine Geste: die brüske Bewegung eines Ellenbogens, die eine Kerze ausgehen läßt.
Auf einmal werden wir zu dem, was vorher zitterte.