Cesare Viviani è nato a Siena nel 1947 e vive a Milano dal 1972. Si è laureato in giurisprudenza e in pedagogia; ha svolto per qualche tempo attività giornalistica, per poi dedicarsi, dal 1978, a quella psicanalitica. Ha scritto i seguenti libri di poesia: L’ostrabismo cara (Feltrinelli, 1973), Piumana (Guanda, 1977), L’amore delle parti (Mondadori, 1981), Summulae 1966-1972 (Scheiwiller,1983), Merisi (Mondadori, 1986), Preghiera del nome (Mondadori, 1990; Premio Viareggio), L’opera lasciata sola (Mondadori, 1993), Cori non io 1975-1977 (Crocetti, 1994), Una comunità degli animi (Mondadori, 1997), Silenzio dell’universo (Einaudi, 2000), Poesie 1987-2002 ( Mondadori, 2003), Passanti (Mondadori, 2002), La forma della vita (Einaudi, 2005), Credere all’invisibile (Einaudi, 2009), Infinita fine (Einaudi, 2012). Nel 1987 ha pubblicato un romanzo dal titolo Folle avena (Edizioni dello Zibaldone, Studio Tesi). La produzione saggistica comprende questi titoli: La scena (Edizioni di Barbablù, 1985), Pensieri per una poetica della veste (Crocetti, 1988), Il sogno dell’interpretazione (Costa e Nolan, 1989), Il mondo non è uno spettacolo (Il Saggiatore, 1998), L’autonomia della psicanalisi (Costa & Nolan, 2008). Ha tradotto da Verlaine: Feste galanti (Guanda, 1979), Feste galanti-La Buona Canzone (Oscar Mondadori, 1988), Il profilo lieve delle voci antiche (Centro Nazionale di Studi Leopardiani, 1998), Paul Verlaine, Romanze senza parole (Feltrinelli, 2007). Ha curato, con Tomaso Kemeny, i convegni svoltisi a Milano nel 1978 e 1979 sulla "nuova poesia italiana"e i relativi atti: Il movimento della poesia italiana negli anni settanta (Dedalo, 1979), e I percorsi della nuova poesia italiana (Guida, 1980). Ha collaborato a numerose riviste letterarie e ai quotidiani "Il Giorno" e il "Corriere della Sera". Ha partecipato alla direzione della rivista culturale "Legenda" (1988-1994).
da L’OSTRABISMO CARA (1973)
per il vestibolo agganciato male ebbe ottenuto
le spesse maleodoranti fazioni della linea
terraaria e s’innestò trangugiando il modesto
parato di sozza battitura alla quale imponendosi
piota aveva consumato. Ora s’intestava
all’ammasso dei bachini, decidevano i sorci
intesi se dare o meno metta!
per il turbinio trasloca lettera a epistrofeo
e il callifugo insulso più spalmato a dovere
non resiste alla cottura scoccola
*
il frigio se lo dividessero perché azzardi con le
mele del ragno, assediassero le prese se scorrerebbe
il fagiano per il malocchio, Aldo,
scontrava i corridori gelidi imbelliti che
chiamava fustagno e fruste e fiori li consegui
latrando
Dickens lo allungavano a rispetto
nell’ingressino del bromo
*
alla tua santità come e piove foraggi
trintignando all’aggiunta del cielo, cospettoso
esaurientemente intricatoti nel pesante folleggio,
o compratore o assillante non c’è usura
del pezzo e accontentarsi come i cespi del pelo
volle la passionella ventilata agli avidi del parco,
delle sedute non dirgliene al micio
meglio la vetrice e il pannicello della coppia
nera nel dietro aver calore
che frustavo
*
decalcato dal gesso diventa un cominciamento
religioso l’allontano perché sia incrementata
l’erezione nel tipo e in contanti
ebbi un apprendimento viperino del polveroso
e sassuto impasto di Olghe la mezzana
si è rapata quando ha celato con il gettone
l’ora di frenetico poco
*
in canestro risale la mappa del duodeno
affranta collimando i calchi del pantano
del giocoliere si dice lesto il porno e per
non discolparsi in interiora le mattine sciaguattano
contendendo il làbora:
tac Mimes al divenire fecola e inturbonisce
si rigira come un talco passato allo sfiato
delle carrette carillons del bebi tandis
l’analfa intenerisce al trillare del maschio
allora s’inturgidisce e scopre impalato
la fede dell’uno a erre
da L’AMORE DELLE PARTI (1981)
alzassi i fiocchi e ti vedessi tana
come quel forno alla … centrale
marcia l’abbraccio amore …
non ti dimentico …
Mio ci cambiammo verso l’eterno fuori
il sopore del vezzo assottigliato
senza pletore e santi sentimenti.
Tu che fingi la gente e mi hai scartato …
ma poi mettendosi sulle tue facce
quanti stenti
frazioni (dell’immagine) …
un osanna col battito allargato
una falda completa. Oh nascondino
oh pulcherrimo schianto oh sofficino
sei tra le mie stampelle nella porpora
*
o saranno denaturati colori - il tuo John Cavalcanti –
la trasmissione di orchi e rimorchi … fino al negozio
in cui dici …
"questa piega è bellissima. Lo fai?". Era
lo stesso sibilante segno
le posizioni contate l’odore
ricordo le tue rogge – oh tuona ancora
questo molle tenore
dai le gocce . Mucilla . nel tuo plesso...
E le scene s’abbassano a questo scarico … allegano
i serpi nel cotto …
ma che sanno! infilano doni?
tarda! che fuso amabile
*
vieni nei cesti, ti presento Marina
avrei immaginato … una riservata cosa sola una
pertinenza dimessa … (" ho appena lavorato coi difetti …
papè papè satàn …") e non i fiotti
arretrati da dire
è ritrovato è l’afrore
o m’hanno accolto nelle matrici del bucato (sulle spianate lucide
c’è la giostra):
"la collezione s’è snaturata con gli anni …"
(Ha criticato il tremito la perenne colonna …
e così non mi allaccio …
finché ah s’è bagnata!)
*
"… e un pedone intenso che dominava l’isola
in pochi lassi seminò questo liquore di cui ora
puoi contemplare le leggi …"
col tasto m’ero allineato al peluche (ritempra)
l’unico capo di scarso busto: irrora:
sprofondavo reina nello scorcio
vivido bianco succhio sì alla fine
golosa della rapida … avrei operato …
lo stesso calamitato flash in un manto di carne …
Quando è stata cacciata la partenza! Dopo
fatte le fauci scotti via …
come lisci per sempre la tua cocca!
*
stingendo l’arsenale è concitata
le volte s’è allargata conclamata
la borra più smaltata sai la riga
la riga aperta avvampa allampanata …
Munto bianco filato attenuato
ingorga il vischio arrossami … attraversami …
la chiara scola un tempo sei arrivata
*
foss’anche la fatina delle sete
con le mappe esteriori che attiravano
lo struggente condotto e filamento …
e scivolava
il gallico frammento:
nella striscia di labbra la celata
tua che si scalda (ascolta l’incerata)
si dischiude l’ascosa i bordi scremano …
Oh sì aspirare il boccio la violenza
e tu Lorenza …
da PREGHIERA DEL NOME (1990)
Il cittadino mi vede seduto
sulla panchina che la prima luce
imbianca, meravigliato
si ferma e vuole
che gli risponda. Dice
che sono bianco in volto.
*
La volta che cominciasti a scuotere la villa
e nel salone delle feste cadde il lampadario e lo stucco,
grida furiose, due ospiti
la Cresci e il suo amico finirono sotto, morirono,
e si schiantò la parete di destra si lacerò come carta …
Corsi da te, in fondo al parco volai dalla porticina
a cercarti nella casina nella tua stanza. Dicesti:
"Ma come fai ad amare uno che disfa tutto".
*
Avevano ragione a dirci: non spingetevi oltre,
arrivate fino alla vigna grande e tornate.
Guardate le cose che già conoscete,
i tigli del viale,
la fila dei salici lungo il fossato,
l’orto della fonte vecchia, il boschetto,
dopo compaiono le case di San Romolo e proseguite
fino alla cappella e ai filari.
Fate il sentiero di sempre, fate
una passeggiata.
*
La Liliana di Corbetta fu la mia
prima vera fidanzata, sgraziata ricordo una volta
che per baciarmi scivolò sbatté
la testa sulla tavola –
pensi che meglio di me lo dice
il narratore lombardo l’ultimo grande
scrittore del Novecento, penso
che sei vicino ma che ti manca
la decisione –
se è solo questo io vorrei
portarla in India Liliana
nei monasteri tibetani, ricordo un film
che raccontava di una valle dove si vive il doppio,
e dirle: "Ecco Liliana staremo qui
per il resto dei nostri giorni".
*
L’intarsiatore pensa:
ogni giorno arrivando in questa via ignota
da una delle tante case a fare il mondo –
qui faccio il mondo –
e la gloria
piove la gloria dalle vie che attraverso, dalle finestre
delle vecchie case della mia città, dallo stesso cielo.
*
Sarà Biolcati il mio amore, di un paesino
del varesotto in ate, nessun altro è stato,
nessuno, e sarà il sogno di gioventù le rime
ritrovate. Dice: "Scendi a prendere
qualcosa per il mio stomaco", e io vado e mi trovo
nella stazione di Varese, mai stato prima, ora
vecchio spero
che sia capace di scegliere presto la cosa
buona, di gusto. Pensa,
più nessuno che mi conosca. I genitori,
gli amici e quei vantaggi tutti
mi hanno lasciato. Morti.
Gli amori tanto inseguiti furono niente.
Oh parole, oh prole! Ora nessuno
a cui parlare di me.
Sono solo con Biolcati, il mio asciutto amore,
non è fine il vestito, non si può certo
pretendere altro che questo grande amore,
anima silenziosa, secca, la sua, ora
che riprende a correre il treno,
quei monti di cristallo, attraenti, fantastici,
ancora una volta li vedo,
verso il confine.
*
Non mi fece un cenno decifrabile –
le brevi mosse della testa o leggeri suoni
con la bocca o le nari – ma scattò a correre,
portandomi con sé, sempre più forte.
Io stretto al suo corpo e in pericolo,
potevo capire che intenzione aveva
ora che calavano le mie forze e tra poco
avrei lasciato la presa?
Voleva farmi precipitare nell’immenso vuoto
che si era aperto sotto di noi?
No, non si capiva questa sua corsa furiosa,
non era gioia, non era rovina,
non era una cosa infinita,
e fu qui che io lasciai la vita.
*
Penso ancora ai rischi di essere
perseguitato, le mosse
per sfuggire i pericoli se ho amato
non seguire le regole,
ma no, basta! lo prendo per mano
il mio vecchio padre e ci mettiamo a correre,
lui ride si scioglie in un riso pieno sereno, inciampa
ma lo sostengo, vola, è leggero, un’anima
esilarante la velocità aumenta il riso
la stretta delle mani "portami con te",
ma non è lui a dirlo povero vecchio sono io
che chiedo ancora
"portami nel tuo cielo".
da L’OPERA LASCIATA SOLA (1993)
[…]
"Ricordati che il maggior peccato è curare,
e tu – mi riconoscesti, avevi ragione –
sei un grande peccatore. " Erano anni
che non ti incontravo, e anche quel giorno
mi tenevo nascosto dietro i filari,
ma tu con una corsa improvvisa mi balzasti addosso
ruggendo come un leone. Mi costringesti
a recitare con te:
"Allontana da noi, Signore,
ogni pensiero di conservazione e di cura".
Liberaci dalle professioni.
I guaritori, il medico: quando passa
questo a controllare la malattia,
proprio come si va a visitare
un piccolo possedimento di periferia:
"Deve muoversi o il suo fisico
avrà un invecchiamento rapido".
L’ultima volta non ce l’ho fatta,
è salita una risata irrispettosa, grassa:
"Lei pensa che dovrei impegnarmi a ritardare
le alterazioni organiche, il decadimento,
la semplice conclusione del battito? …
E il martirio allora? –
mi sono messo a urlare fingendo
un attacco di pazzia, spingendolo
verso la porta – il martirio?".
O l’altro, il geometra, che arriva e dice:
"Qui bisogna alzare di due centimetri
il livello del terrapieno per migliorare
lo scorrimento dell’acqua …". Ma come si può,
Dio, come si può dedicare
la vita alle migliorie?
"Sai – mi dicesti una volta in lacrime –
è così fredda la fede, anonima,
porta la lontananza con sé, reca
l’indifferenza.
Come la vogliono i miei fedeli,
è la certezza del bene.
E io sarei qui impiegato a rappresentare
la divina bontà!
Così non posso stringere i loro corpi,
sentirne il palpito. La passione
è intesa come un peccato.
Per questo, amico mio, - ora sono io
che mi confesso, ascoltami –
di notte penetro nella chiesa,
e nel silenzio alto del mondo compio
l’inaccettabile.
I danni agli arredi, alle pareti, all’altare,
quei gesti vandalici di cui tanto
si parla ogni domenica, facendo ipotesi,
indagando senza costrutto, e intanto
le distruzioni continuano …
voglio che almeno tu sappia …"
Abbiamo imparato insieme, preticello mio,
che il movimento della terra – quello
impercettibile della crescita dell’erba e dei rami,
e quello devastante dei terremoti,
dell’acqua e del vento – scuote
l’anima dei trapassati e manda ai vivi
parole indelebili.
Ora l’autista, in assenza di ordini, ha preso
l’iniziativa: ha fermato la corsa.
Sono finite le scosse, il tuo corpo è inerte.
Davanti a noi, alla fine dei campi, le mura
della città turrita, immobili,
lambite dall’ultimo chiarore: "Non è
la città dove siamo nati", avverto
il conducente con una voce secca, serrata.
Lui cerca di convincermi. "Non è – insisto –
per quanto somigliante, non è!".
Allora lui balza indietro, come ferito,
ha paura, mi guarda atterrito,
come fossi un pazzo.
Non riesce a credermi.
Ha un’aria annichilita, indietreggia rigido,
si allontana da me. Alla fine grida:
"Non è irriconoscibile la mia vita!".
Ha avuto paura della morte il conducente, scappa
a gambe levate verso la città. Fa ridere.
Non sa cosa l’aspetta. Crede di trovare
i familiari, le consuetudini, i soliti conforti …
Un balsamo ti conservasse per sempre!
Ma per averlo dovrei
agire, questa notte e domani,
correre dagli specialisti in segreto,
curare i preparativi, sfuggire
alla curiosità, alle leggi!
Adoperarmi per ottenere.
Invece, senti il concerto che esce
dal silenzio implacabile di questa notte.
Prevosto mio,
qualcosa di inimmaginabile sta accadendo.
Io mi aspettavo
che con la luce del mattino, e poi
avanzando nelle ore del giorno,
qualcuno intervenisse a riportare
quest’auto abbandonata nei circuiti del mondo.
Traslochi, accertamenti, interrogatori.
Ma tanti che sono passati non hanno visto
l’ambulanza ferma sul ciglio della strada:
come se non ci fosse o fosse invisibile.
Oh passanti, oh lettori! Chi di voi
si fermerà ad ammirare l’invisibile,
tralasciando chi vi aspetta? Chi spezzerà
le catene del fare, per affondare
e disperdere il suo sguardo
nelle forme del vento? Chi passerà
il suo tempo a cercare
il punto dove scompare ogni figura,
dissolta dalla luce? Chi abbandonerà
il brusio assordante dei commenti,
per accogliere in sé la voce dell’Inesistente?
Oh, mi direte, la tua retorica! Ma un giorno,
uno qualunque, mentre svolgete
le più comuni mansioni,
si spalancherà sotto di voi un abisso,
un bagliore, un dolore vi abbatterà, acutissimo,
così profondo da colpire il centro della vita,
cercherete ancora di difendervi afferrando
un oggetto, tentando una mossa.
Sprofonderete.
Dopo sarete una cosa inerte. Gli altri,
intorno a voi, indaffarati subito
a far sparire questo corpo immobile,
in una fossa.
da UNA COMUNITA’ DEGLI ANIMI (1997)
La mente è la natura che ignora
i moti degli animi
*
L’animo, folle, aspira
a opporsi al flusso della materia.
La mente è materia, conosce
l’inarrestabile corso e gioca
fino alla fine.
*
La forza che prende e lascia il corpo,
mai vista, narrata
come ardimento,
vitale tenacia, volontà, non rappresentata
avrebbe il segno della divinità, farebbe
una comunità degli animi.
*
A cercarsi i viventi, a darsi nomi,
a porre sui presenti sentimenti e onori,
a colmare distanze per incontrarsi,
voler raggiungere la certezza dei cuori.
La mente rimane ferma, con i suoi
segni millenari, non va in cerca,
sa che non c’è altra vita.
*
L’assedio, la malattia, i tanti nomi
usati per quelle poche azioni,
mentre il vento spirava e portava via
la voce dei feriti e dei moribondi.
Il luogo del farsi male si pulirà
con il cielo azzurro.
Finirà l’assedio.
*
Non è persona, non è figura, è giorno.
Non assomiglia agli uomini, ai loro
trasalimenti, ma ben oltre le astrazioni,
le parole neutre, i segnali anonimi,
è lo spazio alto, incolore, è una fascia,
infinita, vuota, imparagonabile a segni,
a forme, è la fede, ma non quella
benintesa tra Dio e gli uomini,
bensì quella impercorribile, statica
tra sera e sera.
*
Finita l’apparecchiatura umana
con gli stimolanti, i veleni,
rimane il prato come è sempre stato.
Il perdente, arrivato con febbrili idee
di conquista, è l’ultimo a lasciare il luogo:
si fa il suo passo conforme al riposo
degli animali, al maestoso silenzio
dei boschi.
*
Non volano gli anni, è l’uomo
che si affanna a misurare con il tempo
i cambiamenti della carne, del cuore.
Infinito dolore lo lega
al paradiso perduto senza rimedio.
Attimi di gioia, idea dell’eterno,
invenzioni, appelli continui
per contrastar la discesa. O abbandonarsi
e rendere dolce la resa.
da SILENZIO DELL’UNIVERSO (2000)
[…]
Chi continua a smarrirsi nel fare,
o parimenti si perde in seno alla natura,
rimane nella fede. Ma oltre,
lasciato l’amore, abbandonato ogni valore,
escluso ogni fautore o mediatore,
è luce, luce, luce,
luce della Verità, luce
del mattino.
Il cuore sia il Creatore –
non si perda in bontà o in amore.
Il battito, la forma, la materia
non siano altro che sé, non siano
funzione o descrizione;
siano solo quel che da sempre sono:
la propria creazione.
Ora non c’è preghiera pronunciabile,
non c’è cura:
nell’essere che non si rivela
ritorni, dove è sempre stata, la creatura.
Il niente dell’esistenza e della storia
disveli l’immensa gloria.
Prima di arrivare al proprio essere,
ha fatto parte di silenziose esplosioni stellari,
era niente ma ha distrutto,
con un contatto minimo, una grande massa infuocata,
è sempre stato invisibile, inavvertibile,
ora si può dire: infinito.
Non c’è spazio: procede
intatta la creazione
nella continuità, nella pienezza,
tutto è indistinto niente.
Niente,
movimento assente.
Inganna la natura quando promette
il luogo della nascita o dell’amore:
e quando, con la veemenza dell’istinto,
porge salvezza al cuore. Invece, da sempre,
si addensano i corpi neutri della creazione,
ogni tratto va a comporsi nell’unione.
Nell’unità si ricompone
tutto il visibile, tutto il dicibile.
Restano le differenze ma scompaiono,
e non ci sono distanze di corpi
o rilievi di costruzione,
ma irrisori spostamenti nella creazione.
Niente al di fuori di quello che è.
Niente può uscire dal tutto,
amore semplicemente è essere,
essere parte di questo insieme.
Non più vedere il flusso che si ricompone,
ogni sostanza e presenza trovando
compatta posizione; e nemmeno sentirsi
dentro questo fluire a contatto
con la varietà degli elementi, caduti
tutti gli orientamenti, ma essere
nel flusso,
essere
nel flusso.
Quale storia delle imprese, o dei popoli!
Non è storia quella delle azioni umane,
non c’è indagine nella permanenza della creazione,
l’unico decorso lo dà
l’eternità.
Non si distinguono nel presente, non restano
in alcuna memoria atti, eventi:
con i collegamenti e gli assidui contatti
nel colmo dell’aria ogni cosa straripa, si perde
nel vuoto delle forme,
nel pieno infinito.
Si direbbe avvolgimento o distesa
sconfinata, o meglio pienezza,
dove i movimenti, i rivolgimenti non sono
che unica pura pienezza.
Niente più si distingue, parola o cosa:
eterno riposo riposa.