Vittorio Cozzoli è nato nel 1942 a Cremona, dove vive. Si è laureato all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Come poeta ha pubblicato i seguenti volumi: Poesie (con lettera di Carlo Batocchi, Edizioni di Revisione, 1976); La splendida luce (con un saggio di Franco Loi, Nardini Editore, 1992): Il Purgatorio del Paradiso (con prefazione di Claudio Magris, Mobydick, 1998, Premio Matacotta); Così tu a me (con nota di Erminia Lucchini Androni, Mobydick, 2000); Gli uccelli (con una nota introduttiva di Gabriella Guffi Goffi, Grottammare, 2002), La diaspora delle icone (Mobydick, 2008). Sue poesie si trovano in riviste e antologie, tra cui “Il pensiero dominante”, a cura di F.Loi e D.Rondoni (Garzanti, 2001). Ha curato, tra gli altri (introduzione e traduzione) il volume: Max Jacob “Poesie” (Raffaelli Editore,) 2003. Come studioso di Dante, ha iniziato gli studi sull’anagogia dantesca e pubblicato vari saggi. In volume sono usciti: Il Dante anagogico. Dalla fenomenologia mistica alla poesia anagogica (Solfanelli, 1993); il primo Commento anagogico alla “Vita nuova” di Dante (EDIS, 1995);Il viaggio anagogico – Dante tra viaggio sciamanico e viaggio carismatico (Battello, 1997); L’acqua di Dante (Mce, 2004); La guida delle guide: Dante secondo Dante (Battello, 2007).
E-mail cozzoli@tiscalinet.it
*
da “LA SPLENDIDA LUCE” (Nardini Editore
1992)
Nel primo dei misteri gloriosi
avrei un segreto da confidare,
ma prova tu a scrivere queste cose,
prova il rumore della luce
quando brilla dalle stelle
e piano piano
discende fino al punto
in cui sorge o risorge la vita.
Certo, riferimenti a fatti
concreti, dici,
come quando piantò quella vigna,
come chi leggendo il libro della
vita,
perde il segno. Dove eravamo
rimasti?
*
Che il fumo dei semi di anice verde,
bruciati in un imbuto, guarisse la
sordità,
che il biancospino calmasse del
cuore
le inquiete improvvise palpitazioni
e vincesse l’insonnia ostinata,
questo si credeva al tempo dei
tempi.
Ma oggi? Oggi di troppi bisogni.
Oggi per questo tanto più amato.
Altra cosa è seminare certezze,
come quando scrisse: Non abbiate
timore,
perché quanto ha di più bello il
deserto
ha rigermogliato.
*
Nel terreno umido delle rive
il salice grigio, tremulo,
il pioppo ibrido, già bianco già
nero,
e più in là l’olmo minore,
l’acero campestre e gelsi, cespugli.
E più giù, di radice in radice,
giungo alla radice di tutte le cose.
E penso a come sacra è questa
unione.
E più sù
un diffondersi vivo nell’aria,
un guardare in posizione d’ascolto.
E, ascoltando, con lei vado
che fa brillare di quiete le cose,
che fa tornare allo splendore
le distrutte.
*
Ma c’è un bianco dentro la luce
ancor più misterioso
più oscuro delle ombre
più chiaro delle evidenze,
lo so, lo so da molti anni,
mi tiene per sé, lo tengo per me,
non per egoismo, non per altro,
perché questo è il mio colore.
Di questo bianco parla Dante,
di questo, non degli altri:
la calce violenta dei muri,
la pagine mai scritte,
i fumi delle cose che non sono.
*
In viaggio con le stagioni - il nome
del santo invocato contro il
fulmine,
la grandine, gli spiriti maligni -
sempre in viaggio tra la minima
e la massima delle intelligenze,
dentro la bontà dell’arcano
silenzio,
ah eccovi,
piccoli e grandi doni,
pigne di larice, licheni crostosi,
muschi,
silenzi, rocce, radici, respiri,
sorrisi,
ah come
tutto semplice per voi,
messaggeri della splendida luce,
mentre lascio che lei si spieghi,
mentre tutto è presente e siamo già
qui.
*
Non sono matto, non lascio
che qualcosa faccia da padrone,
nemmeno ci provo, sarebbe troppo.
In mano ho solo una penna,
so bene quello che posso scrivere.
Posso distinguere il giorno dalla
notte,
ciò che è chiaro da ciò che è scuro,
scrutare gli ultimi fuochi del
tramonto,
le prime luci dell’alba, guardare
le anatrelle alzarsi in volo
tra l’azzurro e il bianco delle
nubi,
eppure, se ci penso, a volte
come in una nebbia vedo di più
e sto di casa nella notte,
che non è il buio.
*
Da qualche tempo più spesso
comprendo il mio tutto, il mio
nulla,
qualcosa della mia luce, del buio.
So che per noi luce è il buio
della sua luce, che il suo buio
per noi è luce della sua luce.
Più semplice diventa il desiderio.
Per solo amore del suo amore
ardono i resti della mente.
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da “IL PURGATORIO DEL PARADISO” (Mobydick 1998)
*
I tempi, lo vogliano o no, già
stanno
cambiando. Senti? Il cuculo
improvviso
risuona dal bosco dell’inverno.
Se Dio vuole anche la notte finisce.
Già vengono i tempi nuovi, i nostri.
E tornano i santi della realtà.
E’ dall’infanzia che crescono i
meli.
*
Le anatre in volo, selvatiche
sopra boschine
e acque di pianura,
salutiamo a lungo con lo sguardo.
Dove vanno non so, e se anch’io
con la mente volo è sopra le nubi.
Quello che capisco è senza fondo.
Sì, qualcosa che nessuno traduce.
Nel vento è il silenzio del volo.
Dopo,
solo dopo vengono le parole.
*
“Sei tu? – domandiamo – Proprio tu?”
Rispondono in festa tutte le cose,
il ginepro fenicio e l’elicriso,
l’oleastro e il lentisco tra i
graniti
e le piccole silvie del cisteto,
i pratini
profumati di menta
tra sabbie e sali, dove forte il
vento
insiste perché brillino le stelle.
Sì, non puoi essere che tu, qui,
per noi,
nella luce di Caprera, la selvaggia.
*
Come lepre impazzita d’amore,
nelle radure, nei campi, nei boschi,
nelle grotte, nelle altezze dei
monti.
Chi ti fermerà non ti vorrà bene
e chi ti inseguirà per sorpassarti
sarà perché tu per lui ti sorpassi.
Ma che tu corra o sia ferma è lo
stesso.
*
Come i cicognni
della cicogna
le poesiole
della poesia.
Certo, questo è solo scritto, ma
anche ora,
con tutto il mio sapere, ne so meno
di prima. Tutto è poco, tutto è
molto.
Il riassunto del paradiso
il fiato corto del mondo e il vento
di Dio.
E i senza parole, frequenti
nell’azzurro.
*
Non invecchia la luce. Non
invecchia.
Per questo, senza togliere lo
sguardo,
lascio che sempre a me torni.
Non mi chiama col nome di un altro
e non cambia la forma delle cose.
Fissa le ombre, solo un poco le
muove.
Insegna, torna e insegna. Non può
stare
nascosta. Non tace. La sua voce è
più del canto degli uccelli nel
bosco,
del liquido miracolo dell’acqua,
del silenzio dei santi traduttori.
*
Bianchi di neve i monti
all’orizzonte.
Senza burroni è l’inverno della
pianura.
Ma chiamano, chiamano gli alti
monti.
Ho deciso, né compero né vendo.
Là dove tu splendi, dal buio vedo
un oro farsi, di oro chiaro. Andare,
salire. Uno di gioia, uno di dolore.
Anche la lingua lo dice, la lingua,
in leggere filigrane scritta.
*
A volte la quiete insorge,
altissima.
Si muove? E’ mossa? Chi può saperlo?
L’evidenza è buona testimone:
un cesto di sorbi, uno di
lazzeruoli.
E silenzi d’improvviso stupore.
Dico che tutto è tutto, che niente
è niente,
che tutto è niente, che niente è
tutto.
Ma è dalla nascita che l’amore
mi assedia. Lo so, se m’inganno
è per dubbio. Se sbaglio, è per
buona fede.
Se vedo, intravedo.
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da “COSI’ TU A ME”
(Mobydick 2000)
*
Proprio così hai detto:
“Via Vittorio Cozzoli già via Dante”.
Mi hai fatto ridere. Abbiamo riso
insieme
in una via traversa di questa
Cremona.
Ma veniamo al dunque. Lui, uscito
dai piccoli perimetri dei verbi
attivi, può dire: “Nobile è il limbo
ma l’aggettivo del paradiso è
il suo sostantivo”. Ed io: “Per ora
quelli che con me viaggiano
dal modo di piangere li riconosco,
dal sofferente sorriso della
nostalgia,
dall’incessante ansia della gioia”.
*
“Già non confondi il mezzo col fine,
più chiare ti sono le differenze,
distingui il bene dal male. Dunque?
“
“Anche un sasso nel miele resta del
suo”.
“Cosa lasci alle spalle?”. “Il
secolo”.
“Davanti?”. “Il fuoco dei serafini”.
E ora?”. “Quella parte che resta
del viaggio”.
“Mangia mele e allegra frutta
dell’inverno,
mangiala con quelli che hanno fame”.
*
Leggo una tempesta di neve, no,
non sul libro. Domani l’azzurro
leggerà il bianco. Il bianco
l’azzurro.
Dici: “Ancora adolescente è la
realtà.
Un poco di sogni vive, un poco
d’attesa.
Ma il presente è già qui, nella sua
ora.
Dunque, tieni ben fermi in terra i
piedi”.
Perché, ora, questo passaggio nel
cielo
di uno stormo di anatre selvatiche?
Perché l’aria diventa vento?
*
Qui non si gioca a testa o croce.
Dileguano le ombre della paura,
solo timori dicono, che non sono.
Nuova è la notte, nuova. Dici:
“Guarda
come adora la luce delle stelle”.
Dunque, un giorno Giobbe nella
cenere
un altro Davide saltellante,
ma sempre, convenìtene
poeti,
altra, oltre questa, è la nostra
lingua.
*
Un haiku,
del giapponese Kijo,
oggi, d’aprile, leggo e rileggo.
“Nella pioggerellina primaverile –
di certo, è uscito
lo spiritello della pietra”.
E aggiungo: “Di chi è figlio,
di chi, questo odore che profuma?
Da dove viene? Dallo stesso luogo
dove, qui e là, abita il mistero?”.
Mi rispondi: “La sua forma, la tua,
è quella che la luce dà al cuore”.
Le scienze? Oscure, e sempre in ritardo.
*
Dall’aria è giunto un seme,
volando, qui.
Del cardo? Dell’angelica? Di cosa?
Dal prato del paradiso? Da dove?
Né strega né indovina, l’anima,
povera, ignorante, proprio non sa.
Vede e non vede, pensa e non pensa.
Guarda intorno, chiedere vorrebbe,
ma nel silenzio dei fiori la luce
ride di quel riso che ferma il
tempo.
“Nobile venticello, che volando vai,
fermati, sta fermo, rispondi a me:
da cosa conosco il tempo?” Volando
dici: “Dall’eterno, è, dall’eterno”.
*
Del ribes, dei frutti dell’uva
spina,
ombre cugine, forse gemelle.
Ma altro è da pensare. Il problema?
Gridi e gridi, ma il silenzio ti
fissa,
paziente ti attende. Te, nel punto
d’oro.
Quello che è stato sarà. Ora è in
viaggio.
“La donna ha ragione, comprendila.
Alza la sua sintassi? Sèguila
nel suo discorso, nella sorpresa. E
se vola,
vola. E se tace, taci. Di più,
amala.
Dall’altra sua parte, non più sola”.
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da “ GLI UCCELLI”
(Stamperia dell’Arancio
2002)
*
Sirio brilla nel sereno. E’
febbraio,
quasi marzo. Del colore della sua
luce
sono le piccole stelle. Tutto torna.
Le gemme dei salici? Eccitate,
come bambini. Anitre e gallinelle?
Come le bianche oche cercano
l’acqua,
di canali e piccoli stagni ombrosi.
Ma facciamo due calcoli, uno subito
e l’altro più in fretta. In
precario
equilibrio è la giustizia.
*
Anche meglio vivrebbe, ma non può,
senza storia la natura. Sègale
e orzo quasi maturi, e nuvole,
bianche come oche, nel cielo. Siepi
e canneti e idilliche anatrelle. E
se
degli uccelli mai visti, l’urogallo,
la bianca pernice, lo scricciolo,
non puoi avere ricordo, confessa,
dell’araba fenice, che risorge dal
fuoco,
hai nostalgia e senza farlo capire
resti in attesa sulla linea
dell’orizzonte.
*
Il vento porta i suoi odori, mirto,
finocchio selvatico, timo, e quell’altro,
marrone, non secco. Liberi
nell’aria.
L’incorruttibile odore del suo
presente.
Fuoco e stelle meridionali. Nella
sua notte
insegna la storia. Dove sono, dove,
l’antica Grecia, gli antri delle
Ninfe?
E Babilonia fatta di mattoni?
Dove riposano gli Etruschi
misteriosi
dei loro tufi spogli? Sul ramo,
nell’ombra,
oggi riposano gli uccelli.
*
Cedi al richiamo, vieni. Basta
questo.
Il buio che era davanti ora è
dietro.
Come un muro nascita e morte:
questa e l’altra vita non divide.
Due le porte, una la luce. Guarda.
E ascolta il flautato rigògolo,
il periferico cardellino, il
tuffetto.
L’inverno del merlo è nelle sua
bacche.
Il nostro nel parco dei frutti
antichi:
l’amareno, il cotogno, il corniolo.
*
Ha consonanti questo pettirosso?
E la cinciallegra, tutta vocali?
Quale voce il vento per loro, io so.
Do re mi fa sol la si , di nuovo do.
Abita il cielo la segreta scala.
Gradino dopo gradino il canto
non trattiene. Perché discutere?
E’ cristallo. “Col saluto di Dio,
fino alla settima generazione”,
risponde l’angelo bambino.
*
Resta nel tuo orto di neve, nera
gazza,
lì ti ha messa Monet, sul vecchio legno
del cancello, nel pomeriggio
d‘inverno.
Resta dove ti ha messa, lui sa il
perché.
Non uscire dal senso del limite.
Ti capisco, anch’io nel mio lo
capisco.
E’ la pazienza dell’inverno, la
neve,
l’amore dell’alto e del basso,
il mistero del suo corpo.
*
Come un argento nell’età dell’oro
o come un ferro in quella
dell’argento.
E già esulta la corte dei nani.
La festa? Fanfare che scoppiano,
il vecchio trionfo, e giù e giù e
giù.
Disgraziato presente, ancora non
cerchi
il tuo nuovo, l’oracolo della gioia.
Alza gli occhi, rimettiti in
cammino.
Vieni anche tu, pispola golarossa,
così grande è il cielo.
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dalle
POESIE INEDITE
*
Cammino nell’orto degli odori,
respiro aneti e piccole mente.
Anch’io qui bevo quanto basta,
l’acqua del suo vero. Qui tutto
nasce.
Non conosco il segreto della Sfinge?
Che importa, dove tutto nasce! Qui
il giusto né aggiunge né toglie,
brilla nel più sereno dei cieli,
nell’orlo di luce delle tempeste.
Ma che dolore, Italia, dirlo a te.
*
Respira il fondo, respirano nel loro
Le cose. Nel silenzio del principio.
Madre delle Muse, che ricordano
i nipoti se le figlie dimenticano?
Bacche di ginepro, rametti di sorbo,
volo d’anatre, nebbiette nei boschi.
Disse bene infine: No, sorelle, no.
*
Certo, farei qualcosa, anche da
poeta,
per l’Italia, e lo faccio. Ombre
del vento
alle spalle dell’inverno, dietro le
siepi
già ai primi fiori. La memoria,
questa
occorre al tuo risveglio. Così,
oggi,
senza timidezze, senza rossori,
a te viene, Italia, questa parola,
a te, che hai smesso di ricordare
il lato destro di tutte le cose.
*
Anche tardi, anche all’ultimo.
Tornano, sono pochi, ma tornano.
Stelle e stelle nel purissimo
silenzio
della notte. Se urge, chi la
trattiene?
Sepolta non giace. E come sa,
risale,
dal più profondo nasce: la risposta
migliore. Sa che tutto può, crede.
Tremino i potenti nel loro mondo.
Per quale via non vanno, nel buio.
Ah zirlìo
di tordi! Che attesa, usignoli!
*
Notte ancora, ma già è un muoversi
del cielo. Lui chiama e loro
scrivono.
Dal cespuglio al fuoco che affina.
Virgilio dall’antro della Sibilla,
Holan dalla neve di mezzanotte,
Pound dal lampo di tutte le cose.
La neve, il fuoco della sua luce.
La bianca, l’infinita presenza.
Ah luce, che risorgi da te stessa.