La Poesia italiana del Novecento - The italian Poetry of the 20th century

Patrizia Cavalli


Patrizia Cavalli è nata a Todi nel 1947 e vive a Roma. Ha pubblicato le raccolte di versi: Le mie poesie non cambieranno il mondo (1974), Il cielo (1981), Poesie 1974-1992 (Einaudi, 1992), L’io singolare proprio mio (Einaudi, 1999), Sempre aperto teatro (Einaudi, 1999), Pigre divinità e pigra sorte (Einaudi, 2006). Per le musiche di Diana Tejera ha realizzato i testi di Al cuore fa bene far le scale (con CD audio, Dati Voland, 2012). Ha tradotto dall'inglese e dal francese narrativa e teatro.

patriziacavalli@alice.it

Anche quando sembra che la giornata

sia passata come un'ala di rondine,

come una manciata di polvere

gettata e che non è possibile

raccogliere e la descrizione

il racconto non trovano necessità

né ascolto, c'è sempre una parola

una paroletta da dire

magari per dire

che non c'è niente da dire.

 

 

Nel cesto della biancheria sporca

riconosco l'estate,

i pantaloni leggeri le magliette.

 

Avevo troppa fretta d partire

per potermi fermare a ripulire

le tracce della corsa.

 

 

Ma prima bisogna liberarsi

dall'avarizia esatta che ci produce,

che me produce seduta

nell'angolo di un bar

ad aspettare con passione impiegatizia

il momento preciso nel quale

il focarello azzurro degli occhi

opposti degli occhi acclimatati

al rischio, calcolata la traiettoria,

pretenderà un rossore

dal mio viso. E un rossore otterrà.

 

 

Quante tentazioni attraverso

nel percorso tra la camera

e la cucina, tra la cucina

e il cesso. Una macchia

sul muro, un pezzo di carta

caduto in terra, un bicchiere d'acqua,

un guardar dalla finestra,

ciao alla vicina,

una carezza alla gattina.

Così dimentico sempre

l'idea principale, mi perdo

per strada, mi scompongo

giorno per giorno ed è vano

tentare qualsiasi ritorno.

 

 

Dolcissimo è rimanere

e guardare nella immobilità

sovrana la bellezza di una parete

dove il filo della luce e la lampada

esistono da sempre

a garantire la loro permanenza.

 

Montagna di luce ventaglio,

paesaggi paesaggi! come potrò

sciogliere i miei piedi, come

discendere - regina delle rupi

e degli abissi - al passo involontario,

alla mano che apre una porta, alla voce

che chiede dove andrò a mangiare.

 

 

Ah sì, per tua disgrazia,

invece di partire

sono rimasta a letto.

 

Io sola padrona della casa

ho chiuso la porta

ho tirato le tende.

E fuori i quattro canarini

ingabbiati sembravano quattro foreste

e le quattromila voci dei risvegli

confuse dal ritorno della luce.

Ma al di là della porta

nei corridoi bui, nelle stanze

quasi vuote che catturano

i suoni più lontani

i passi miserabili di languidi ritorni

a casa, si accendevano nascite

e pericoli, si consumavano

morti losche e indifferenti.

 

E cosa credi che io non t'abbia visto

morire dietro un angolo

con il bicchiere che ti cadeva dalle mani

il collo rosso e gonfio

vergognandoti un poco

per essere stata sorpresa

ancora una volta

dopo tanto tempo

nella stessa posizione nella stessa condizione

pallida tremante piena di scuse?

 

Ma se poi penso veramente alla tua morte

in quale letto d'ospedale o casa o albergo,

in quale strada, magari in aria

o in una galleria; ai tuoi che cedono

sotto l'invasione, all'estrema terribile bugia

con la quale vorrai respingere l'attacco

o l'infiltrazione, al tuo sangue pulsare indeciso

e forsennato nell'ultima immensa visione

di un insetto di passaggio, di una piega di lenzuolo,

di un sasso o di una ruota

che ti sopravviveranno,

allora come faccio a lasciarti andar via?

 

 

Sarebbe certo andato tutto bene,

una passeggiata un caffè, al cinema

qualche volta insieme, le cene

a casa o al ristorante; sarebbe stato

insomma tutto regolare

se all'improvviso togliendosi gli occhiali

non si fosse seduta sorridendo

con un'aria leggermente impaurita

e i capelli un po’ spettinati

che la facevano sembrare appena uscita

da un sonno o da una corsa.

 

 

Per questo sono nata, per scendere

da una macchina dopo una corsa

in una strada qualunque e trafficata

e guidata dagli angeli piegarmi

attraverso il finestrino

sopra quei capelli e in silenzio

sentire l'odore di quel viso

dove poco prima avevo visto

come la bocca e gli occhi

si passavano un sorrido che non si apriva mai

e correndo veloce scompariva

in un attimo e tornava.

 

 

Addosso al viso mi cadono le notti

e anche i giorni mi cadono sul viso.

Io li vedo come si accavallano

formando geografie disordinate:

il loro peso non è sempre uguale,

a volte cadono dall'alto e fanno buche,

altre volte si appoggiano soltanto

lasciando un ricordo un po’ in penombra.

Geometra perito io li misuro

li conto e li divido

in anni e stagioni, in mesi e settimane.

Ma veramente aspetto

in segretezza di distrarmi

nella confusione perdere i calcoli,

uscire di prigione

ricevere la grazia di una nuova faccia.

 

 

Mi ero tagliata i capelli, scurite le sopracciglia,

aggiustata la piega destra della bocca, assottigliato

il corpo, alzata la statura. Avevo anche regalato

alle spalle un ammiccamento trionfante. Ecco ragazza

ragazzo

di nuovo, per le strade, il passo del lavoratore,

niente abbellimenti superflui. Ma non avevo dimenticato

il languore della sedia, la nuvola della vista.

E spargevo carezze, senza accorgermene. Il mio corpo

segreto intoccabile. Nelle reni

si condensava l'attesa senza soddisfazione; nei giardini

le passeggiate, la ripetizione dei consigli,

il cielo qualche volta azzurro

e qualche volta no.

 

 

Adesso che il tempo sembra tutto mio

e nessuno mi chiama per il pranzo e per la cena,

adesso che posso rimanere a guardare

come si scioglie una nuvola e come si scolora,

come cammina un gatto per il tetto

nel lusso immenso di una esplorazione, adesso

che ogni giorno mi aspetta

la sconfinata lunghezza di una notte

dove non c'è richiamo e non c'è più ragione

di spogliarsi in fretta per riposare dentro

l'accecante dolcezza di un corpo che mi aspetta,

adesso che il mattino non ha mai principio

e silenzioso mi lascia ai miei progetti

a tutte le cadenze della voce, adesso

vorrei improvvisamente la prigione.

 

 

Di essere ormai adulta l'ho capito

da come la notte vado al gabinetto.

Sicura di tornare al grande caldo, prima

era un'interruzione quasi a occhi chiusi,

veloce e trasognata. Ora è un viaggio lento

e freddo, staccato dal sonno, dove guardo

sapendo di guardare le stesse mattonelle

lo stesso muro screpolato, lo stesso secchio

lasciato in mezzo al corridoio,

e confusa nell'estatico disordine

riconosco il percorso in un codice

di piccoli sussulti finché mi riconsegno

a un tiepido torpore castigato.

 

 

Nella febbretta cuposa dei risvegli

il sudore del sonno si ingiallisce

e cola addosso alle finestre, al cielo

anche se è azzurro. E quando esco

dal sibilo dei sogni

che ha lasciato le mie orecchie ottuse

intossicate dalla ripetizione e riconquisto

lentamente i gesti

che mi portino a un'altra posizione

(forse se metto una camicia a righe

e i pantaloni bianchi, camminerò più in fretta,

avrò un'andatura eretta) dove io non sia

il recinto inerme dei terrori,

l'impresario di scontri clandestini

che alla fine si innamora dei suoi attori,

trovo una mimosa oro antico

il suo turno di splendore ormai finito,

il gregge come una nuvola piatta e mobile

sul prato senza più la frangetta degli agnelli

e il caprone capo col campanaccio al collo

abituato ormai a credere

che muoversi sia il suono.

 

 

Esseri testimoni di se stessi

sempre in propria compagnia

mai lasciati soli in leggerezza

doversi ascoltare sempre

in ogni avvenimento fisico chimico

mentale, è questa la grande prova

l'espiazione, è questo il male.

 

 

 

 

da Poesie, Einaudi 1999