Prisco
DE VIVO

Prisco De Vivo è nato a Napoli nel 1971 e vive ad Avellino.  Ha pubblicato i volumi di poesie: Dell’amore del sangue e del ricordo (Il Laboratorio/Le edizioni, 2004, prefazione di Plinio Perilli e postfazione di Raffaele Piazza), Segni e parole. In una notte oscura e uggiosa (Il Laboratorio/Le edizioni, 2006, lavoro di poesia/immagini a quattro mani con Raffaele Piazza), Dalla penultima soglia (Marcus edizioni, 2008, prefazione di Marcello Carlino), Ad Auschwitz (Il Laboratorio/Le edizioni, 2009, prefazione di Enzo Rega e postfazione di Antonella  Cilento), Il lume della follia (Oedipus, 2020, prefazione di Alfonso Guida). È risultato per la raccolta inedita Il lume della follia al secondo posto del Premio Nazionale Minturnae per l’inedito 2009. È incluso in varie antologie: Melodia della terra (Crocetti editore, 2006, a cura di Plinio Perilli), Da Napoli, Verso (Kairos editore, 2007, a cura di Antonio Spagnuolo e Stelvio Di Spigno), Poeti e Pittori – Secondo Tempo (Marcus Edizioni, 2013, a cura di Alessandro Carandente e Marcello Carlino). Recensioni e poesie sono apparse su: Poiesis, Risvolti, La Clessidra, Pagine, Gradiva, La Mosca di Milano, Secondo Tempo, Capoverso, Poesia, La Repubblica, La Stampa, Il Mattino, Sinestesie, Zeta, Cenobio, Trimbi, Clandestino, Graphie, Poeti e Poesia, Frequenze Poetiche. Collabora a diversi periodici e riviste d’arte e letteratura, italiane e straniere, cartacee (come “Graphie” e “Frequenze Poetiche”) e on-line (Blog come “Nazione Indiana” e “Poesia e lo Spirito”), inoltre ha partecipato a mostre di poesia visiva. Si è occupato di saggistica, scrivendo su poeti come Pasolini, Bellezza, Capolongo, Ceronetti, Pagnanelli e ha pubblicato il saggio illustrato Rubina Giorgi. Sacrificio per la parola (Edizioni Ripostes). Con Sandro Montalto ha curato l’antologia di poeti campani, Speciale Campania (in due tomi, “La Clessidra”, Edizioni Joker, 2020).

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POESIE

da DELL’AMORE DEL SANGUE E DEL RICORDO

Bendato
Mendico in giardini
oscuri, bendato cammino
spintonando sedili d’ombra.
Donne vestite di bianco
mi raggirano,
chiedo un amore
che sia luce del passato.
Un amore che mi accarezzi di notte,
che mi tolga tutte le bende dagli occhi
e mi stringa a sé nella sua culla di cure.

Intimo nulla
Dopo aver toccato l’annulamento
con due lunghe mani
succhiando il tuo piede
pensavo
all’eterno piacere
che ci invertebra e ci trascina
corpo e anima
all’estinzione.

Bianca presenza
Di sera sulla collina
una figura lattiginosa
in un’auto rossa.
Un vestito bianco,
bianco come un’anima,
che, aperto lo sportello,
mi abbagliò gli occhi
come lama
Una sera silenziosa,
senza moto,
come serrata da un sigillo.
Al collo una piccola croce d’oro
che scendeva liquida
sul petto.
Sopra la veste
la luce dei capelli,
e quella faccia,
quel corpo di colpo
svanirono nel mio abbraccio.

I miei occhi si abbassarono
I miei occhi si abbassarono
sulla punta del mio mento
Per ore rimanesti tremante
e infreddolita
tra nugoli di colombe di neve.

I  tuoi  capelli  morbidi
I tuoi capelli morbidi
sono uniti
a quel tuo timido sguardo.
Le tue mani delicate
hanno toccato la croce,
penetrano adesso la mia pelle.
L’odore di refettorio
della tua saliva
mi riporta a primavere
mai consumate.

Il sorriso di santa Teresa d’Avila
Su una panchina bagnata
Appariva il tuo doppio,
la nipotina della tua stessa faccia.
Del tuo stesso sorriso, era con te.
Riconoscevo Santa Teresa D’Avila
nel taglio delle sue labbra.
E tu ridevi, ridevi.
Avvicinandoti
volesti baciare la mia mano
che sanguinava.
Con quel gesto venerabile
mi salutasti,
lasciando che l’acqua  ti scorresse
tra i capelli.

Ardore lontano
Camera di luce tersa apparsa
nella schiena del sogno,
luce lontana
di bocca tremenda.
Tacito e inerme
scavo e smuovo
radici di steli
che affollano il cuore.

Resurrezione
Quale passaggio spirituale
ci agevola e non ci fa paura?
Sulle scale
ti vedevo alata
svenire.
Io rinascevo
sulle tue cosce
senza capire il perché.

Corpo  celeste
In novembre mi hai detto che dopo c’è
solo luce bianca,
null’altro.
Ho bevuto con te il vino dell’infermeria.
Dal letto
ho guardato il riflesso di un corpo celeste.

Infinità di silenzio
Questi poveri piccoli occhi
mi parlano ancora.
Di un’infinità di silenzio.

Sposa bambina
Sposa bambina
non amo cambiare:
ti vesto e ti rispoglio
sempre allo stesso modo.
Ma se tu volessi
ti sbranerei il seno
come uno sciacallo,
ti svestirei di carne superflua.
Farei uscire a fior di pelle
il porpora del sangue,
l’azzurro delle vene,
tutta quell’anima arrabbiata.

Eclissi
Con fiato sospeso
da un interminabile eclissi
vedevo occhi piccoli e saturnini.
Le rondini scappavano
in aree lontane dello spirito
ed io gridavo:
“la natura inizia lì dove la vita finisce”.
In un respiro
il cielo si unisce alla terra,
l’acqua al fuoco
e gli uomini alle bestie.

Nel paese di mio padre  (a mio padre)
Sul basolato rosicchiato
un sguardo torvo di bambino
ha imbarazzato giovani donne.
Quelle donne innamorate e sciatte,
ipnotizzate da cappotti scuri
la miseria le accarezzava tutte
(bramosa le abbracciava).
A mezzogiorno
eremitiche salumerie,
fetide lavanderie
erano chiuse come fortini.
Delle tinozze gli orli
il fango nero lambiva,
sopra e sotto.
I segni di carbone
si allungavano ai muri.
La speranza la si spartiva a pezzetti,
come lardo e prezzemolo nella casseruola.

Quel tuo greco soffrire  (a Nunzia)
Non riesco a guardarti
nei tuoi occhi inchiostrati di seppia,
perché non so comprendere
il tuo volto pallido
quando ritorni di sera,
quando timido mi nascondo
sotto le lenzuola
e raggelato intuisco quel tuo greco soffrire.

Negli inverni del ’50  (a zio Luigi)
Il cerimoniere è a tavola.
Il tintinnio scintillante dei bicchieri
assolve penetranti occhiate.
Sul collo lungo di una bottiglia di vino
il riflesso informe di mio padre
che ripete: “frateme nùn teneva e’ scarp”.
Penso alle sue scarpe nere
legate con lo spago alle mie mani.
Negli inverni del ’50
siete apparsi tutti e due.
Col cappellino grigio
sguazzavate nel fango delle pietre,
posavate su cerchi di sedie
senza sedili.

Apparizione  (a Valeria)
Orologi smontati, senza lancette
tavoli, sedie coperti da brevi tappeti.
Da uno separé
una donna mi guarda.
Uno sguardo di piccolo mare
si posa su di una pietra.

da DALLA PENULTIMA SOGLIA

La stanza
In queste quattro mura
cosa potrà mai accadermi?
La scatola di velluto nero
è lì sul tavolo,
intima e mefitica.
La poltrona è a fiori,
il pavimento a scacchi.
Annoiato giro le spalle
al camino e a me stesso.
Anubi è lì davanti
a rovistare nelle viscere
del faraone.

Lo sguardo  (a Diamond)
Non posso far niente
per il tuo tremore.
Al sole di febbraio
riluce la tua chioma leonina.
Sul terreno ricade
quel lungo ramo
di uno sguardo profondo e innocente.
Riconosco I
immobili gli occhi di mia madre
che mi guardano
e mi parlano di non so cosa.

Mistero sferico  (a Gesualdo da Venosa)
Gesualdo ottenebrato ascolto
il suono di 50 ottavini
sulle scaledel terrazzo
un misterioso suono sferico
si propaga nell’aria
là dove una possente corda
ha stretto barbuti seminaristi.

Ho paura di te  (a Valeria)
Ho paura di te,
della tua bellezza.
Ho paura della morte
e della tua assenza.
Ho paura
di ogni calma eternità.
In un battito
le ciglia del silenzio.

Occhi azzurri di sciroppo
Occhi azzurri di sciroppo,
labbra appesantite,
dischiudi nostalgia,
e natiche ventose.
Fatti avanti, giunonica presenza,
appoggiati a questo schienale
in una morsa di piaceri!
Sii fiamma sul sedile
di questo vecchio scompartimento.

Incrocio di aghi
Quel lunedì di novembre
pezzo per pezzo
Marta baciava chilometri di cotone
e di punti a croce.
Funzione liturgica in un incrocio di aghi.
Io rimasi ad occhi chiusi
morsicando una porta gelida.

Un ramo di luce
Nessuno ti cercherà più
in questa tua vita mesta
perché sei lontana dal tempo.
Malinconico e olivastro
cuore che rantola.
Ma Il tuo sguardo caduto
si riaprirà ad una finestra nuova,
mia aurorale amica, ti ascolto.
Ascolto Il tuo fiore nero
che si ricolora tra le mani.
Ricordati che un ramo di luce
ti attraverserà sempre.

Visione
Questi miei piedi
calpestano nuove terre.
Voglio affacciarmi
ad una cava profonda.
Sospirerò nella voragine
della mia vertigine.
Da queste rocce ulcerate,
da questo Gran Canyon dell’anima
penso a mia madre.
Con dita spiegate
cerco di toccare il sole,
le lenzuola di Cristo.

Il trionfo della morte  (ispirato all’opera del maestro anonimo)
Nel giardino delle camelie
sostano i nostri ombrelli bagnati.
Dall’atrio ghiacciato
giunge l’eco di una vendetta.
Mi spoglio davanti a lei
sulla panca degli afflitti
e inarco le mie braccia.
Sul soffitto centinaia di anime
si sciolgono in consistenti bocconi.
Bambini che si ergono
dalle bocche.
Ho guardato fino alla nausea
quell’asfittico affresco sulla Morte.

Mater effluvium  (a mia madre)
Nell’acre sala
il sogno era di carne.
Odo ancora gli oboi,
le vibrazioni del liuto,
la soffocata tempesta di suoni.
Forte abbraccio di madre,
Mater Effluvium,
eredità di un’infanzia di sangue.
Il suo sguardo dolce
– nel catino il suo viso era pieno –
illumina le mie palpebre.
Quest’amore di madre
tristemente finito
nella cantina dei ricordi
di una casa senza porte.

Vita sii dolce
Vita siì dolce,
siì un inganno d’amore,
appannaggio – leggero appannaggio.
Il ghiaccio si scongela agli occhi
e si scioglie sulle rotaie.
Bacio la mano di una bimba
con labbra medicate
elevo le mie braccia alla croce.
Mi attacco a un muro,
stiracchio le mie ultime molecole d’esistenza.
Allungati vita in orizzontale e verticale,
come leggera croce.

Parole d’amore  (a Valeria)
Voglio ascoltare sussurri
usciti dall’anima,
quelli scolpiti nella luce
che ci conducono a Dio,
alle nostre membra rovesciate.
Sono sempre ossessionato
da me stesso e dal tatto
della tua pelle, dalla dolcezza dei sogni.
Miro all’ascesi
al desiderio di amare.
Rimembro lontane parole d’amore.

da AD AUSCHWITZ

1942
Mio padre aveva un anno quando
tutto l’orrore
si infuocava nella brace
di una bocca dai ridicoli baffi.
La piccola ombra nera
di una farfalla dell’inferno
si posava su un labbro morto.

Attendendo  Berlino
Berlino scricchiolava
sotto occhi di lacrime.
Un pullman di fumo
attraversava le rovine
i tuoi cani luciferini
erano nascosti
nel Bunker d’acqua e ossido.
La puzza faceva scoppiare le ossa
Il corridoio rimaneva un labirinto
e tu sorridevi oscuro
alla tua nuova prospettiva di Apocalisse.

Il pensiero di un colonnello
La vostra faccia
attaccata al filo spinato
ci consola
lo sguardo impresso
al lardo di porco
al frumento di mais
le vostre esistenze sono:
“gocce di olio di fegato”.

Sharon
Sui tanti sputi
piangevi murata al vento.
Nel buco di lustrate orecchie
scivolava la tua lingua
le mani si appoggiavano ai crani
a robuste patte dei pantaloni
silenziosa impermeabile al piacere
“ascoltavi”:
“la vostra umanità
è la sigaretta delle mie dita”.

Le autorità hanno gridato
Le autorità hanno gridato :
“Giustizia sarà fatta!”
I medici hanno provveduto
a tarpare le bocche.
I piccoli Vichtor, Marnie, Eduard, Maria, Anna, Gustav
In fila con le loro scarpe inbocca
si sono pisciati sotto.

Fascine di cadaveri,
tizzoni di popoli
bambini come tappetti:
sono tutti ricordi dall’oscura caverna
laggiù
nel fetore di “piscio eterno”.

Nessuno hai più ipnotizzato.
Il fedele cameriere
nel silenzio ti ha bucato le tempie.

da IL LUME DELLA FOLLIA

Alla stazione
Sopra e sotto
le pensiline si azzuffavano
2 rimanenze d’uomo
2 vegliardi che non amano vivere.

Dal piscio della scala mobile
mi fissavano.
Il più brutto
piangendo di me
si segnò una croce sulla fronte.

Davanti al camcello di casa
Quanti occhi spenti e grumosi
rivedrò risplendere nel buio?
Immagino di danzare su strade bagnate
con l’umiltà e il desiderio
di fluttuare come una piuma.
In questa malinconia
mi sento accarezzare
la nuca da una fragile Santa.
Sono fermo davanti al cancello di casa.
Ecco che arriva il vento
e gli alberi si chinano alla mia ombra.

Il copertino giallo
Nella buia stazione: fiori di stracci.
Un copertino giallo
copre una donna ulcerata
un piccolo corpo
di cisti e verruche.
Le mie ossa s’incollano alla ringhiera.

Visione mattutina
Lavo i denti
con un dentifricio di menta e silicio.
Con fosforo nel palmo delle mani
alito vapore che assomiglia
al “verde dell’anima”
la tentazione è forte
Cacciare fuori l’altro di me?
O fermarsi solo allo scambio?
Mi basta poco che ritorna
sulla lavatrice
– l’ossidata faccia del dott. Jekill –

Da un urlo sotterraneo
Da
un
urlo
sotterraneo
provengono le ferite di questi uomini
urlo che lacera passi
urlo che fracassa
———–frattura
———–sfonda
urlo dalla finestra delle stazioni
——dalle fogne
——dal buco del lavandino
Guardo in bocca ai malati che
rompevano con i denti
i vetri delle strade
dalle loro fauci
sbucano fiori di colore vermiglio.

Rimestare
Affannoso respiro di Angelo
allontanati dal mio microvivere.
Non ritornare più su un cervello
rimestato dai rancori
I miei piedi affondano
in una calda bacinella di sudore
la barca degli Albini
è rimasta lontana da me
ed io
non voglio più pensare
al rosa del policlinico
alle pinzette dell’elettrochoc
alle tre catene di trecce
che impedivano la mia nascita.

I poeti malati
Era a braccetto con un bacchino drogato
quando mi limitavo a tenere nascoste
le cose del mondo.
Fra lacerti di siepi
riconobbi i vostri occhi
strabuzzati
le bocche girate all’indietro
parlavate a bassa voce
di “carambole”
strani giochi fatti a turno.
Sulla mia macchina
accucciati legavate
i fili di seta alle ruote
Ed io con un fazzoletto
di vetro – per voi
raschiavo “Tragici Mascheroni”.

L’edificio
Bere quintali di acqua fresca
e avere fauci secche
in aridi sensi
non è da tutti.
Ci sono edifici
bianchi come farina
con tetti rossi di terracotta
quelli che hanno una sola finestra
che da decenni
han fatto specchiare
Van Gogh, Hoderlin e Artaud
sulla stessa faccia.

La visita
Ti ho rivisto dopo lunghi
e calcinati anni
dopo occhi che
trasmigravano dolore.
Ti ho rivisto imbiancato nei capelli
e la tua pelle di
bianca cera.
Sperduto spaurato
rantolavi
masticando mosche zuccherate.

Celine
Da una vecchia foto sporca e oleata
riconosco Céline
stanco sprofonda
sul sofà della poltrona.
Lo spiluccato cane
gli riporta
il suo osso rancido
tristo e maleodorante.
I colori della notte
mi fanno pensare
ad una fiammella
che accresce
sulla sua testa.

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