Elio
PECORA

Elio Pecora è nato a Sant’Arsenio, in provincia di Salerno, nel 1936 e vive a Roma. I suoi libri di poesia: La chiave di vetro (Cappelli,1970); Motivetto (Spada,1978); L’occhio corto (Studio S., 1985); Interludio (Empiria, 1987 e 1990); Dediche e bagatelle (Rossi & Spera, 1990); Poesie 1975-1995 (Empiria, 1997 e 1998); Per altre misure (San Marco dei Giustiniani, 2001); Nulla in questo restare (ll ramo d’oro, 2003); Favole dal giardino (Empiria, 2004); Simmetrie (Mondadori, 2007 e 2008); La perdita e la salute (I quaderni di Orfeo, 2008); Tutto da ridere? (Empiria, 2010); Nel tempo della madre (La vita felice, 2011); In margine, congedi e altro (Oedipus, 2011); Dodici poesie d’amore (Frullini, 2012), Nel tempo della madre e altre poesie perse e disperse (La Vita Felice, 2017), Rifrazioni (Mondadori, 2018). I suoi libri di prosa: Estate (Bompiani, 1981), Sandro Penna: una biografia (Frassinelli,1984 e 1990), I triambuli (Pellicano, 1985), La ragazza col vestito di legno e altre fiabe italiane (Frassinelli, 1992), L’occhio corto (Il Girasole, 1995), Queste voci, queste stanze (conversazioni con Paolo Di Paolo, Empiria, 2008), La scrittura immaginata (una scelta di scritti critici, Guida, 2009), La scrittura e la vita, conversazioni con Francesca Sanvitale (Aragno, 2012), Il libro degli amici (Neri Pozza, 2017). I testi per il teatro: Alcesti, Pitagora, Prima di cena, Nell’altra stanza, Il cappello con la peonia, A metà della notte, Trittico, Il giardino, Il segreto di Lucio. Ha curato: Sandro Penna Confuso sogno (Garzanti, 1980); Antologia della poesia del Novecento (Newton Compton, 1990); Sandro Penna poeta a Roma (Electa, 1997).

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POESIE

da POESIE 1975-1995

L’ultimo canto
Forse la prova fu in questo andare per acque
mai ferme sotto i cieli, sopra gli abissi,
incontro a porti segnati su logore mappe,
e ancora in questo snodare funi d’inganni,
chiusi dentro l’inganno che tutto include,
così seguitando le attese, le congetture.
Dunque sostiamo fra le mura e gli arredi
dicendoci eventi remoti, grovigli di storie,
il colmo amore attimo fulminante,
il nostro, il loro ultimo esteso dolore,
un canto accennando, breve come un saluto:
“…la segreta allegria
di starsene affacciato,
il cammino malcerto
nel percorso tracciato,
l’arbusto che infoglia,
il cielo che imbruna,
dentro i vetri la luna…”

Epifanie
Vengono ombre che s’appressano intente,
salgono in folla anche le non chiamate.
(Quali di esse amai, quali mi amarono,
e chi mi disse:”Andiamo”, a chi risposi:”Sempre”,
chi dopo tanto lasciai, da chi fui lasciato,
con chi percorsi una strada,di chi attesi la voce
e chi passò veloce dentro i miei giorni ?)
(Da molti aspettai vicinanze, da molti una guerra,
di quelli che più m’accostarono chiesi la morte
tanto così m’affamava la loro presenza.
Con tutti compii un tragitto
breve, inconcluso,
di alcuni conobbi l’ansia,
di alcuni il rancore,
per altri appresi un passato
di insidie, di incanti,
e chi chiamò piangendo,
chi rise e disparve).

Al padre
Ombra che indugi nella memoria confusa
come al ritorno da un lontano viaggio
non più dicendo di altre partenze e fatiche
e del destino di abitare sulle onde.
Corpo toccato solo avanti la morte,
arrese mani, brevi ceduti lamenti,
venni per mare anch’io se mi portava
fra chiuse mura la tua nave inerme.
Vecchio randagio lungo deserti di acqua,
partito ragazzo da un paese di selve,
poco o niente sapesti del figlio sperso
a rintracciare nel buio l’esatta via.
( Aprile, vele nel golfo, tu m’attendevi
e la pianola sgranò una promessa d’amore,
m’involse allora la pena che adesso sciolgo,
avevi gli anni che compio mentre ti parlo.)

(Noi scendevamo l’isola verde di luce,
svaniti gli orti, le case, prossimo il cielo,
nelle tue braccia, come semenza nel solco,
colsi un istante il bene di essere colmo.)
Ti riconosco compagno nell’arduo cammino
oggi che molti padri invano ho cercati
solo trovando uguali nel dubbio, nell’ansia,
cauti viandanti verso un ignoto traguardo.
Sei la stagione trascorsa avanti la mia,
l’ultima porta e scendo verso l’uscita,
la voce tenue levando traverso le nebbie,
ombre chiamando nel nome breve dei vivi.

Confidenza
M’attende nello specchio
come in un vecchio racconto di prevenuta pazzia,
raramente mi guarda
pure so bene il disprezzo che alterna alla paura,
stiamo insieme ab initio
ci staremo di certo fino all’estrema chiusura
quando ripartiremo
per quel niente che a noi come a tutti spetta.
Ogni tanto lo scordo
e andando si fa lieve e contento il tragitto,
ma presto l’ignorato
torna a contare i passi, a mozzare i respiri;
l’ho visto, si ammanniva
di assai dubbie speranze, di premi da poco,
quando era sufficiente
amministrarsi le ansie e le voglie mai zitte.
La volta che ho provato
a lasciare la stanza del suo triste segreto
ha socchiuso la porta
e m’ha mostrato, un attimo, sabbia soltanto e
cenere.

Per Sandro Penna
Nell’alta stanza con le imposte chiuse
gli tornavano intatti il cielo e il mare
e fanciulli fra l’erbe e l’erbe al sole
del tempo immemorabile sereno
forse varcato soltanto nel sogno.
S’ammucchiavano intorno
al suo letto di logore lenzuola
vari strumenti e vecchi panni e mappe
per un viaggio da compiere ancora.
Nelle notti vegliate udiva l’ora
battere sopra le cupole e il fiume
e già piangeva l’attimo bruciante
quando la triste fanciulla gentile
sarebbe entrata a fermarlo nel sonno.

J.R. Wilcock
” Tutto è niente- diceva- e niente è morte.”,
come il sapiente di Vienna salito nei boschi
pacatamente insisteva:” E tutto è parola.”,
dalla sua casa di tufo guardava le terre
cedere i solchi all’abisso e le viti slegate.
Quando la mano non tenne la pillola amara
– forse sarebbe rimasto ancora un mese-
l’ombra sua macilenta, nell’alba di marzo,
chiuse la stanza dei libri, spense la lampada,
lasciò sulla porta il cane in mezzo alla nebbia,
sdegnata sparve verso i confini del vuoto
dove avrebbe dissolto il chiaro degli occhi
e la sua fragile sorte di triste animale.

da POESIE PER LA MADRE

Io non sapevo, no, quando cantavi
– forse d’aprile, nella stanza azzurra –
che tu eri la madre, ch’ero il figlio.
T’ascoltavano i monti e le pianure,
le rondini acquietate nelle gronde
e io incantato sul cuscino bianco.
Nel tuo canto s’aprivano le attese
del confuso presente, le mestizie
di tutti gli improbabili futuri.
Compresi allora ch’eri la compagna
di un viaggio di asprezze, di tormenti,
al di là delle mura e delle porte.
Lungo molte stagioni quell’inganno
dentro mi crebbi e mi finsi colui
che nella notte cammina davanti.
Stasera dici con voce di pianto
– sale nel cielo la luna di agosto-
che andasti sola per le strade buie.

da CONGEDI

Il sogno, non quello che a notte
assai di rado conduce per inattesi Eldoradi,
invece inserra porte, stringe cunicoli,
confonde alfabeti, lega i piedi alla fuga;
(torna mio padre e mi offende
come mai fece da vivo;
parte per non più tornare
chi a fianco mi dorme fedele)
il sogno, che accompagna la veglia
-fantasma d’amore- salute- ferma allegria,
e converte i passi, falsamente consola,
sdoppia l’istante in uno specchio ingannevole:
una tale spaventosa chimera
dobbiamo ucciderci dentro.
…Andava il delfino veloce
nell’acqua azzurra portando
la prima voglia di esistere.

da RECINTO D’AMORE

Da sempre aborro le armi,
non so se per superbia o per paura,
e quanto ai cavalieri
preferisco i cavalli.
Amo invece l’amore
e seguito a cercarlo
bestemmiando e soffrendo,
come non mai sapessi
d’essere in un servaggio.

Ti vidi, andavi fra tanti
– nell’aria filtravano ombre,
in fondo alla piazza giardini
di alberi spogli – ti vidi:
eri tu chi aspettavo.
Andammo, insieme, parlando
– il buio avvolse le case,
s’alzò dal fiume un gabbiano-
quale parola, fra tante,
quale gesto mancammo?
Ora io so che quel tempo
fu solo un lungo patire,
pure a volte mi chiedo:
” Quale parola fra tante,
quale gesto mancammo?”
Un dio nemico ci tenne
fermi, sopra un abisso.

La luna apparve, tonda, e ci distrasse
(nella finestra, in cima alla magnolia),
stavo per dire:” Non sei tu, l’amore.
Io voglio solo prenderti, tenerti
per un eternità che non misuro”.
Corsero i giorni, la luna riapparve
(nel vento lieve, sopra la magnolia)
e mi dicesti:” Partirò domani.”,
con la voce di chi non vuol ferire,
intanto caccia nel ventre un coltello.

Chi potrà mai, mai più darmi quel bene
che m’aspettavo come un nutrimento?
Che m’accadrà, ora che a un guscio vuoto
assomiglio il mio giorno, la mia sorte?
Non vedo, non ascolto, m’incammino
per una lunga strada, senza mappa,
e non lascio segnali per tornare:
incontro al buio avanzo dal buio.

Altro non ho che la disperazione
e una confusa voglia di sparire:
nessuna voce che venga a chiamarmi
nel pozzo vuoto in cui sto rannicchiato.
E’ morte questa che già mi rinchiude.
La memoria è disfatta. Ci fu un tempo
( a chi appartenne se niente rimane?)
quando attendevo che tu ritornassi
e pativo, chiamavo, e tu apparivi
molto ridendo di quel mio penare.

“Vorrei che mi guardassi e m’ignorassi.”,
chiedi. Tu sei vigore e sfinimento.
Arde l’estate, seguitiamo i passi
di un inatteso accordo, di un intento
che al sempre il sempre aggiunge e vi disvela
un’antica promessa da fermare.
Nell’orizzonte trascorre una vela:
immenso desiderio da chiamare.
Presso gli scogli la medusa attende
l’incauto che s’accosta. Ti disciogli
dall’acqua azzurra. Sulle case scende
il sole, come un gioco che si compie,
come la sola suprema risposta.

Hai sognato il tuo gatto che affogava.
E’ mattino sui monti, nella stanza
trapela un fresco sole, mi domandi:
(esiti prima, ti guardi le mani
lievi, sottili come foglia o vetro,
attendo un poco ansioso, ti sorrido)
“Ora, promettimi di essere eterno”.
La tua voce pretende una risposta.
Io dico:” Eterno è questo che viviamo.”,
dico che t’aggrediscono fantasmi
dissennati nel mezzo della gioia.

Ma nelle mie parole v’è il morire
che ci spetta, la brevità del tempo
che ci fu dato in oscura misura,
v’è la passione che non sa durare
oltre il fievole battito del cuore;
v’è la sconfitta e, pure in questa, il bene
di restare nel sole del mattino,
di traversare strettamente insieme
l’ora della stagione ed il destino.

da PER ALTRE MISURE

Un albero, per appoggiarvi la schiena.
Stare là, senza pensieri, senza possessi.
Il mondo davanti, dietro, intorno.
Uguale al ramo, alla foglia. Che importa
la tegola rotta, la stanza stretta?
Restare fino a che è dato,
senza orologio e senza calendario.
Chi ha deciso questa inquietudine?
Partire, tornare, tenere, trattenere,
quando basta appoggiarsi a un albero.
Invece, nella sazietà
temere la fame, sospirare nella contentezza.
Così, da per tutto.
Non un attimo di sosta. Sempre una guerra,
un contrasto. Profumi che divengono fetori,
polpe che infradiciano,
parole come baccelli svuotati.
Una barca fragile su un mare senza fondo,
l’ansimo nella corsa dell’atleta,
l’urlo dopo il traguardo.
Non sapeva e gli è toccato imparare.
A che è valso?
Continua, come se non fosse avvertito.
Si sveglia da sogni confusi,
si dice che oggi capirà.
Un istante e tutto si ripresenta,
uguale a ieri e a ieri l’altro,
lo stesso disagio, la medesima angoscia.
Quando è cominciato tutto questo?
Non l’ha voluto, ma sta
dentro questo recinto,
e chiama e cerca mentre si processa
e si specchia.Narciso, il deluso,
muore per acqua. Si conosce nel fonte,
si raggiunge negandosi. E Lui qui,
nemmeno lacero, nemmeno affamato,
chiede compagnia nell’errore,
traversa luoghi che lo trattengono,
insegue fantasmi, si chiama per riconoscersi.
Come può difendere la casa, quando
sa di averla eretta sul fango?
Come può vigilare sui figli, quando sa
di essere lui stesso un figlio
piccolo inerme? Forse altri verranno
e la loro giornata sarà chiara e sicura
come l’idea che lo annichilisce.
Gli tocca solo questo:
dopo essersi rivoltato nel vuoto,
recuperare la voce perduta,
tentare la presenza.
Non più la salvezza e l’uscita.
Solo un altro patto,
una nuova misura. Per seguitare.

Sono quel che fanno.
Un rametto di basilico in un vaso d’argilla,
tocca piantarlo, innaffiarlo.
Il mondo non è un’idea se il nostro corpo
ha fame e s’ammala, se respiriamo
l’aria che andiamo impestando.
Chi crede ancora all’anima vagante
in un regno etereo ? Come se lei,
l’anima, non la portasse ognuno
nelle proprie carni, nella mente
che dubita e decide,
nei piedi che s’arrestano o procedono.

Il seme spunta, s’inerpica,
sboccia, matura, infradicia.
Ma è corsa troppo a lungo
dietro il suo desiderio,
non s’è più ritrovata. Forse le tocca
tornare là di dove era partita.

Anche Lui voleva
una storia diversa.
Con il risultato che s’è trovato davanti
altre mura da abbattere e,
dietro quelle mura,
da lottare contro gli stessi mostri.

L’amore è stato e continua
ad essere il perno della sua esistenza.
Quando le manca, si sente disperata, vuota.
Anche nel mezzo dell’amore è scontenta.
Vuole tutto: la vicinanza, la compagnia.
Pretende di specchiarsi nell’altro,
pretende che l’altro
abbia le sue stesse voglie,
pensi i suoi stessi pensieri.
E siamo alla favola del mostro primigenio,
lui intero, spaccato
a metà dall’invidia divina,
condannato per sempre a cercare
la parte mancante. Quanti riusciranno
a imbattersi in quell’altra parte
e per quanto crederanno di esservi riusciti?
I più rabberciano, pazientano,
si lagnano, si rivoltano. L’Amore,
così come lo pretendono,
sbuca di rado, quando non s’assenta
del tutto. Dunque,
ammesso il bisogno impellente,
si passa la vita disperando.
La fiaba di Amore e Psiche:
la ragazza rapita non trova porte per fuggire,
lui torna nel buio a sfinirla di carezze,
per vedere chi l’ha rinchiusa
lei attende che dorma, abbagliata
lo vede. Il seguito è noto.
Psiche supera prove impossibili,
si ricongiunge all’amato. E qui
la fiaba finisce con il dovuto festino.

Il suo amore è pieno di odio,
Il suo odio è pieno d’amore.
Questo è arrivata a sapere,
dopo aver camminato nella nebbia,
dietro un fantasma che chiamava bene e salute.
Le tocca lasciare la rassegnazione,
la pazienza. Le tocca restare qui,
fuori dell’io e del tu, in una ressa di parole,
tutte da districare, da farne cose e gesti.
Nemmeno un istante può fermarsi.
Deve aggiungere mattoni, mentre i muri cedono.
Così per il suo stesso corpo:
lo nutre mentre la consuma,
lo vigila mentre la stordisce.
Di dove verrà il segnale estremo?
Quando si mostrerà il nemico
che porta dentro e la minaccia di morte?
Intanto si procura conforti
che sa esili e brevi,
si figura mutamenti, cerca
l’uscita dalla faticosa vigilia. Sbaglia,
ma ha smesso di blandirsi.
di ripetersi bugie. Sta qui
e vuole starci fino a quando le è dato.
Qui deve raggiungersi, tenersi.

Il referto da tanto è lo stesso.
Vittime, chi le azzitta?
Carnefici, chi li arresta?
Disastri ovunque. E inconcludenze.
A questo punto c’è chi avverte,
con i riflettori accesi della coerenza:
“Esci, una volta per sempre.
Non predicare il silenzio, azzittati.
Vai ripetendo che non sei,
dunque blocca il respiro, annientati.”
Ma Lei è spaventata da che l’aspetta
e Lui si allaccia le scarpe
per ripartire. Vedono il cielo passare
dagli azzurri ai bianchi ai viola,
odorano il vento, si godono
il sole sulla faccia,
il sapore di un frutto, il sonno
che sale negli occhi.
Non si tratta di rinunciare.
Forse che non sei vivo
anche mentre soffri o ti ritrai?

Dovremmo restare dove siamo.
Lei sa di essere in cammino.
Ogni passo le prova di esserci.
Basta ed è tanto. Il resto!
Aveva quattordici anni,
un pomeriggio d’estate, sola in casa
si urlò dietro:” I morti, i morti!”
e si precipitò per le scale;
ne ebbe il piede sinistro slogato.
Ancora sogna di aggirarsi in quelle stanze
e sente al di là delle scale
i passi di qualcuno e sa
che non le riuscirà di vederlo
e ne è atterrita. Si sveglia
con il cuore in subbuglio.

da SIMMETRIE

L’idea di stare
dentro un immenso vuoto,
affardellati di niente,
nel niente incespicando.

*
Cercarsi, nemmeno accostarsi.
Domande. Mai chiuse risposte.
Pure qui l’ora, il giorno.
Quale voce accompagna ?
quale mano conduce ?
Un grumo ogni storia residua.

*
Desiderio è mancanza.
Indifferenti stelle
dentro abissi insondabili,
sperse divinità
in limbi senza nome.
Altra la soglia, la stanza
poco avanti lasciate,
altro il momento, il percorso,
lo sguardo sorpreso allo specchio.
Non v’è ritorno,
soltanto l’andare e l’addio.

Parole come gesti che additano il percorso,
innervate, veloci, da sottrarre al silenzio.
Parole che dissaldano segreti,
che disfano la trama
spessa della paura.
Leggere come foglie,
aguzze come lame,
usurati strumenti
ma chiamano l’attesa, la salvezza.
Corsa breve di sillabe, universo
ricomposto di scaglie,
involucro, confine,
di un’impresa insoluta.
Mappa, specchio reclino,
porta schiusa di un sogno,
e cercarvi la voce
che finalmente adduca
dal nome al corpo.
Fiato, grido, sussurro,
e ritrovarvi il segno
lieve, solo il lacerto di un motivo
che un poco ferma, un pocoaccompagna.
Parole del tornare nell’addio.

Il limite
Starsene qui, nelle stagioni che mutano,
è la norma comune: il dono estremo e l’uscita.
A chi varcò la soglia non è dato tornare:
solo forse nel sogno dice parole slegate
troppo simili a queste dei nostri percorsi.
E seguitiamo assorti, a volte sorpresi,
ogni attesa è un gioco,
ogni dubbio l’incaglio di una deriva,
e diamo numeri ai giorni,
piedi alle voglie,
confini al vagare
– sforniti di mappe, ignari delporto.

L’isola
A Procida quali silenzi fasciano ancora
le vie che si stringono intorno
agli orti e alle case.
Stanotte il vento ha nettato il cielo e le isole,
sul mare steso scivolano vele.

In motoretta un ragazzo ebbro, assordato,
da Chaiolella a Porto, da Faro alla reggia deserta,
cerca uno sbocco alle sue voglie confuse.

Certo in mezzo agli ulivi vigila un dio
dietro i limoni e le palme, oltre i vigneti,
se questo è il luogo dove torna chi parte,

se dopo il crepuscolo Arturo ancora riappare
perché questo è l’approdo, questa la meta
dopo l’andare, dopo lo strenuo cercarsi.

Infanzia
Forse fu solo sciatta, solo confusa
(il paradiso prossimo-toccato
nei gigli d’oro del parato azzurro;
al di là della porta chiusa a chiave
la strada buia e un passo affannato)
forse là, in quella stanza,
il tracciato-l’abbaglio
e vale ancora se cerchi l’uscita
dove t’attenda il gallo dei risvegli
e una stagione tutta di mattini
lievi sospesi chiari interminati.

Forse già allora sapesti la pena
(un angelo paziente vigilava
contro quel buio, contro quell’affanno;
se in quel recinto durava l’esilio
partirne era la perdita, l’assenza)
e seguiti ad andare in quella stanza
e vi cerchi l’abbaglio e la paura
la stagione che dura
oltre le chiarità, oltre i mattini,
e resisti e sei quello e questo ancora
che si chiama-ti chiama fratello:

come il tramonto all’aurora.

il passaggio obbligato.

 
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