IL RITORNO ALLE “COSE” IN RUFFILLI

IL RITORNO ALLE “COSE” IN RUFFILLI

di Giuliano Ladolfi

Leggere una raccolta di poesie di Paolo Ruffilli è sempre un’avventura intellettuale e umana. Se confesso di provare questa emozione fin da quando mi sono dedicato alle sue prime composizioni, il testo Le cose del mondo (Milano, Mondadori, 2020) mi ha letteralmente avvinto, perché ho interpretato il titolo stesso in linea con la proposta interpretativa che da anni perseguo teoricamente mediante approfondimenti epistemologici e praticamente nel lavoro critico e nella direzione della rivista «Atelier», giunta al venticinquesimo anno di vita e al numero 100. Non è affatto un caso che, nel pubblicare in cinque tomi gli studi compiuti sulla poesia novecentesca e contemporanea, abbia posto come titolo: La poesia del Novecento: dalla fuga alla ricerca della realtà. La mia lettura dell’opera di Ruffilli segue proprio una simile impostazione che richiede, pertanto, un’annotazione preliminare. Alla fine dell’Ottocento, secondo George Steiner, è stato infranto il “patto” tradizionale tra parola (tra arte) e realtà. La relazione tra logos e cosmos non era mai stato fondamentalmente negato neppure dalle filosofie scettiche o nominaliste sia pure come convenzionale e sociale. Dopo Mallarmé la lingua dialoga solo con se stessa. Un tale divorzio nel Novecento ha prodotto due filoni diversi nell’impostazione, ma identici nell’esito: lo sperimentalismo avanguardista, che lavora sulla lingua, e l’Ermetismo che si propone di raggiungere Idee Madri fuori dal tempo e dallo spazio. In ambedue i casi ci si allontana dalla realtà. Non tutta la poesia italiana del secolo scorso può essere catalogata sotto queste due correnti poetiche (da me comprese nell’indicazione “secondo Decadentismo” o “novecento” con la “n” minuscola), ma gli autori che cercarono altre vie (l’antinovecento) non riuscirono a ristabilire il contatto tra parola e mondo perché occorreva rielaborare il problema negli elementi fondanti: si limitavano ad aspetti tecnici, come il linguaggio o la struttura metrica o il rapporto con la tradizione. Mario Luzi, invece, si è immerso profondamente nella questione: ha prodotto un vero e proprio “reincanto” dei valori della scrittura in versi compiendo un’impresa titanica in un cammino pressoché solitario.  La raccolta di Ruffilli nella sua struttura sembra rielaborare in chiave personale proprio questo percorso della poesia italiana, come suggerisce la struttura del testo ripartito nelle seguenti sezioni: Nell’atto di partire, Morale della favola, La notte bianca, Le cose del mondo, Atlante anatomico, Lingua di fuoco.  La presentazione dell’autore chiarisce che «questo nuovo libro […] è l’esito di una lunga elaborazione, di un lavoro quarantennale. […] L’idea è legata a un [suo] desiderio a una [sua] precisa necessità, e cioè quella di perlustrare il concreto mondo in cui si è venuta muovendo la [sua] esperienza in un gioco di continui rimandi e rispondenze tra io e realtà esterna attraverso la pratica del linguaggio». Nel concetto di “esperienza” lo scrittore comprende senz’altro il suo lavoro di studioso, di lettore, di critico letterario, oltre che di poeta. La conoscenza del dibattito in seno alla cultura italiana lo ha indotto a compiere questo “viaggio”, che può essere interpretato – ripeto – come emblema di un percorso generale. La prima sezione Nell’atto di partire è veramente affascinante. La lirica iniziale focalizza le parole-chiave: viaggio, vuoto, imprevisto, ignoto. L’autore, nel momento del muoversi verso un obiettivo ignoto, si concentra sull’incertezza di un futuro determinato dalla mancanza di una bussola, di un itinerario, di una meta, come il “viaggiatore cerimonioso” di Caproni («Partito senza mete, solo per partire / di fronte all’infinito»). È la condizione dell’uomo moderno che, avendo perso i punti di riferimento esistenziali, non sa più chi è, perché vive né perché esiste il mondo, come il pastore errante leopardiano. E allora si mette in cammino, come Montale, lungo una “muraglia / che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia»: l’homo viator. Le prime esperienze sono deludenti: il movimento del treno rispetto alle cose «fa presenti a un tratto le ignote e le distanti / rendendo le vicine subito vacanti»; il disagio produce un’immediata tentazione alla sconfitta, «seguitare a dormire in fondo al letto». Eppure, tra sbalzi, virate e frenate, la carrozza si muove in una casualità assoluta, con incontri fugaci che tuttavia cambiano l’autore, anche «contro ogni [sua] voglia». Una simile situazione causa nell’io lirico una sensazione di estraneità («mi sveglio / credendo di non essermi svegliato») che lo induce a ripiegarsi su se stesso, perché il distacco della parola dalla realtà genera inevitabilmente un manque-à- être, un senso di vuoto («Stazioni e bar, luoghi di scambio / dispersi dentro il vuoto»), un decadente senso di sconfitta che coinvolge il personaggio letterario, determinandone l’«incertezza del[lo] stato» e una sensazione «di condanna». Il rapporto con la poesia di fine Ottocento e inizio Novecento, che interpreto come stazione di partenza e come luogo di transito, è percepibile anche nell’allusione a Guido Gozzano («Con un odore espanso, denso / e granuloso, di vita chiusa») che considero come il poeta di passaggio dal primo al secondo Decadentismo. Altra analogia va riscontrata nel senso di estraneità al mondo reale da parte di chi dal finestrino osserva «la successione di cose e di persone», come Tonio Kröger, l’uomo senza qualità di Musil o l’inetto di Svevo («gli scoraggiati, i vinti, i rassegnati…»), con la conseguente paura della dissoluzione dell’io e la conseguente crisi gnoseologica, tipica di tanta filosofia del Novecento («Che il mondo, allora, stia nascosto / sotto la sua ombra e il suo riflesso?»). In un simile turbinio di sensazioni, in una tal “liquidità” gnoseologica («non c’è più il filo a cui annodare / la mia storia», come Montale), pratica ed esistenziale, assistiamo a uno scontro tra la realtà esterna e quella interna, tra il movimento e la staticità, tra il desiderio e l’agire, tra il sogno e il risveglio, tra il partire e il restare (essere fermi su un veicolo in movimento). In questo contrasto dinamico gli elementi si scambiano i ruoli emotivi di attrattiva e di ripulsa, emblema del perpetuo e insolubile rapporto tra essere e divenire. «Il senso del mondo dev’essere fuori di esso. Nel mondo tutto è come è, e tutto avviene come avviene; non v’è in esso alcun valore – né, se vi fosse, avrebbe un valore. Se un valore che ha valore v’è, dev’esser fuori d’ogni avvenire ed essere» così ammoniva Wittgenstein negli Anni Venti del secolo scorso. Ma una simile consapevolezza non appaga il desiderio umano che vuole vivere l’esistenza in pienezza («Nella felicità ci sfiora il tempo»), senza l’anticipata soggezione all’angoscia della morte («sostanze / in decomposizione, un alito di morte») e il conseguente rifugio nell’illusione.  La prima sezione rappresenta il clima culturale europeo dalla fine dell’Ottocento agli Anni Settanta, alle soglie di quella che chiamo “Età Globalizzata” che nella caduta del comunismo sovietico ha trovato la sua più chiara manifestazione. Nella seconda parte il poeta approda a una “stazione”: la nascita della figlia, circostanza che lo costringe a confrontarsi con una realtà “relazionale” («Che tu sostenga il falso / sapendo benissimo di farlo / a tuo vantaggio […] ricorrendo alla bugia»), imponendogli un rifiuto della retorica per inoltrarlo sulla strada dell’autenticità, nonostante il “buio intellettuale” («il venir meno / dell’appoggio diretto della luce») e la fragilità di ogni contatto, che, comunque, lo aiuta a superare la solitudine gnoseologica ed esistenziale («È il ponte incerto che mi hai gettato incontro / per superare il vuoto»; «Si scopre presto, ognuno per suo conto, / il bisogno di stare in mezzo ai propri eguali»). Conseguentemente l’atmosfera diventa più personale e più concreta: la metafora del viaggio trova una pausa nel mondo familiare e nelle vicissitudini che costellano l’esistenza quotidiana mediante la rappresentazione di episodi, l’inserimento di consigli e di insegnamenti, che mai scadono nella pedanteria didascalica, ma assumono piuttosto un carattere confidenziale. Troviamo anche un breve dialogo: «Ma tu, papà, mi ami?» e la ricerca di attribuire un senso alla vita inizia a prospettare un barlume di speranza. La figlia è “altro” rispetto al mondo precedente incentrato sull’io. La realtà si rivela ribelle a ogni tentativo di dominio, di manipolazione a fini interpretativi, di inglobazione («Dai ordini al mondo che, invece, / non ci sente e fa a suo modo»). Non c’è spazio per l’elaborazione mentale «sulle rotte dell’immaginazione». La stessa figura paterna subisce un processo di demitizzazione («Come eroe, lo sai, mi sono / defilato»). La precedente paralisi gnoseologica si tramuta in saggezza esperienziale, non priva di momenti di sconforto («Che cosa può insegnarti l’esperienza?»; «Ma te ne penti, di ritrovarti prigioniera / dei soldi e del successo della tua carriera», «fidando di pestare intanto il vuoto / per non dimenticarti di aprire le tue porte / sul mistero della vita e della morte»), in momenti di conquista umana («[…] Perché / sta nel segreto e nel nascosto, / mai a vista, la molla della vita, / la ricerca, la scoperta e la conquista»), che nell’amore rintracciano il significato esistenziale: «Prima o poi arriva anche per te il furore / e come il fiume in piena / invade tutto e trascina nell’amore». Se per il poeta il mondo «allora / era un grandissimo mistero / che entusiasta volev[a] a tutti i costi / attraversandolo studiare», ora egli ha capito di non essere «il figlio / principe di un regno pressoché assoluto», ma di aver incontrato la “rugosa” realtà proprio mediante l’esperienza responsabile della paternità («[…] ero diventato sostegno e protezione, / io, tuo padre, portato ormai a fare da misura / e segno, perfino, a te di direzione»). Ruffilli, quindi, ha raggiunto un’importante “stazione” durante il suo viaggio e proprio il rapporto con la figlia lo inserisce nel contatto con la realtà. Notiamo – e proprio qui sta l’essenza della poesia –  che l’autore consegue questo obiettivo non intellettualmente, non suggestionato dal pensiero di questo o di quest’altro filosofo, ma all’interno di una ricerca personale che ha coinvolto la totalità della sua persona: relazionarsi con un altro-da-sé comprende anche la sfera intellettuale, non solo quella emotiva e pratica, per cui nella terza sezione lo scrittore si trova nelle condizioni di ricercare il significato di altre fondamentali questioni: la natura umana, la memoria, «le falsità dell’intelletto», «ogni minima creatura», la contraddizione del reale, la tentazione del sogno, il pensiero, il “guazzabuglio” interiore, l’attesa, il tempo, l’universo, la gioia e il lutto («precipitato, tutto, nell’imbuto / nel cieco vaso che posa / tra le braccia del suo buio»), il momento, la felicità, la violenza, l’osservazione, il sogno della coerenza, l’aspirazione al trascendente. Si tratta unicamente di indagini, mai di conquiste, ma il tono è completamente cambiato, perché l’autore accetta il limite, il mistero, il buio, il vuoto: “Io, partito debole e incerto sui bersagli / senza vera meta e senza una ragione, / capace invece contro la mia attesa / di trarre l’energia dal vuoto e dal dolore / […] / diventato con sorpresa (strana, mi dico, / la mia sorte) via via più forte per la vita / avanzando e avvicinandomi alla morte”. L’obiettivo di cambiare il mondo è stato modificato nell’obiettivo di cambiare se stessi e in questo egli testimonia di esserci riuscito. Qui lo stile si rarefà, si infittiscono i termini astratti in consonanza con le tematiche trattate; viene accentuato il lirismo, sempre sostenuto dal vigore di uno stile che mai indulge al sentimentalismo. La quarta parte, Le cose del mondo, e la successiva, Atlante anatomico, sono dedicate agli oggetti e alle parti del corpo.  «Eccolo, il nome della cosa / l’oggetto della mente / […] / precipitato nell’imbuto dell’immaginato». In questi versi Ruffilli ripropone uno dei problemi più discussi e mai risolti della filosofia: il rapporto tra mente che conosce e oggetto conosciuto. I versi citati alludono al titolo del celebre romanzo di Umberto Eco, Il nome della rosa, il quale risolve il problema secondo l’impostazione nominalista: «Stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus». Ma, come si è chiarito, al poeta interessa un altro tipo di rapporto, un rapporto concreto, con l’anello, l’armadio, l’astuccio, la bambola, con le cose quotidiane, il cui elenco alfabetico si conclude con il vocabolario. Similmente dalle ascelle e dalla bocca si compie un percorso fino al ventre e alla vulva. Gli oggetti non vengono colti unicamente nelle loro caratteristiche fisiche, ma soprattutto in rapporto con la persona e quindi nel loro uso, nella loro struttura, forma, simbolo, orizzonte di attese e si prestano così alla delineazione di molteplici valori. In questo modo non sono considerati soltanto più come “cose”, ma colte nel loro significato, in una proiezione emotiva e sentimentale, fonte di timore e di felicità, sogno e realizzazione: «Fragile, freddo, cupo, colmo, trasparente / fonte di pace e di ristoro, schermo e / diga al niente» (Bicchiere). Il poeta, dunque, lascia trasparire un messaggio: è l’uomo che dà forma e senso alle cose mediante la relazione che le trasforma in universo di simboli che incessantemente dialogano e arricchiscono i suoi strumenti di ricerca. Il mondo allora è parola, sentimento, fonte di gioia e di sofferenza, quesito, limite e orizzonte di ricerca.  I singoli testi seguono una struttura abbastanza uniforme: definizione, associazioni di immagini, clausola originale e illuminante («Memoria e magazzino: la sorgente, / nel cuore della vita, il laccio e / uncino, il continente che addita a ruota / il divieto e la licenza, amore e disamore, / gioia e rimpianto […] / [..] in corsa / per il mare dei piccoli caratteri / sottratti alla deriva dal filo della storia», Libro). Ogni composizione è condotta con sagacia, inventiva e creatività al punto che ogni verso causa nel lettore un moto di stupore di fronte all’abilità dell’autore nel conferire aspetto poetico alla quotidianità. Personalmente in questa sezione avverto l’eco di Giambattista Marino (“il poeta dei cinque sensi”) e dei marinisti come Gian Francesco Maia Materdona: «Animato rumor, tromba vagante, / che solo per ferir talor ti posi, / turbamento de l’ombre e de’ riposi, / fremito alato e mormorio volante» (Ad una zanzara), soprattutto nell’uso cospicuo degli aggettivi («Piena, ridente, amara, chiusa, cucita o asciutta…» Bocca) e di metafore, nelle brevi espressioni argute ad effetto, nelle definizioni che si compenetrano, si completano, si accavallano, si assestano su valori semantici diversi. Ruffilli persegue forse la “meraviglia”? Scorrendo queste due sezioni la tentazione di una risposta affermativa si affaccia alla mente: del resto, la cultura barocca testimonia l’identica crisi culturale che stiamo ancora vivendo e il parallelo tra lo sperimentalismo poetico secentesco con quello novecentesco è ampiamente documentabile. Se però collochiamo queste composizioni all’interno della struttura della raccolta l’angolatura interpretativa muta: non si tratta unicamente di un compiacimento letterario, ma di una ricerca che dalla fuga dalla realtà giunge al cuore del mondo e il lussureggiante stile diventa il segno di un’artistica presa di possesso di una realtà sempre sfuggente, mutevole e pluriprospettica.  Stessa disposizione viene riservata «in relazione al corpo» all’Atlante del corpo.  In seguito lo scrittore si immerge all’interno della parola, Lingua di fuoco: allusione alla Pentecoste, quando lo Spirito Santo divenne parola di salvezza per l’intera umanità, come afferma Alessandro Manzoni («E ne’ tuoi labbri il fonte / Della parola aprì», La Pentecoste): «Ecco che di colpo riesco a dare / corpo all’ombra, si stacca la parola / dal groviglio e dà forma al fantasma / figlio del sogno». Ruffilli, dopo aver raggiunto le cose, si accorge di aver conseguito questo risultato grazie a una parola “che dice il mondo” e che non dice più soltanto “se stessa”, come avveniva nel Novecento. Al risultato non è estranea la lezione del grande Mario Luzi («Vola alta, parola»). «Dalla melma primordiale», dal caos, dal Big Bang, ecco un’«improvvisa fioritura / frutto gravido di idee al mondo»; «Poche semplici uniche parole / solo strettamente necessarie / secche scorticate nel loro lividore» (poetica che a stento combacia con le sezioni precedenti).  E la ricerca-viaggio giunge alla meta: «l’enigma si disvela nel linguaggio», nella parola in cui si racchiude in presenza misteriosa, quasi per “contrazione” cusana la realtà, dove anche il silenzio si rivela: «L’ultima stanza è quella, sì, / del  vuoto, del silenzio, del tutto / che è conficcato dentro al niente». E proprio «dal silenzio … viene la chiamata», «[…] la voce / […] riconsegnando il peso / forma contorni e consistenza / all’essere esistente». Il viaggio dello scrittore è compiuto: dalla crisi gnoseologica giunge alla conquista di una parola che “dice il mondo”, di una poesia che si fa canto di un cammino della nostra cultura, di un’aspirazione presente nell’animo di tutti gli uomini. Il testo è denso di interrogativi e di sfaccettature e si presta a molteplici letture, generali e particolari, non sempre lineari come non è lineare l’essere umano. È un libro che induce a pensare: le continue aperture di senso non lasciano indifferenti e suscitano prese di posizioni. A tale fine concorda anche lo stile limpido, preciso, a tratti esuberante, sempre usato con perizia in un tono medio colloquiale per mezzo di un sicuro possesso del lessico: un vero e proprio modello di lingua poetica. La versificazione offrirebbe poi l’occasione per un trattato a parte: il ritmo fluido e armonioso si rincorre nelle diverse strofe, fondamentalmente strutturate intorno all’endecasillabo; non mancano novenari o soluzioni più ampie, sempre rigorosamente in accordo con il metro di base. Le rime sono disposte con estrema libertà: in fine, in mezzo al verso, in funzione di conclusione della singola composizione, anche alternate (Fermi da tempo, già, fuori stazione). Stupefacenti poi sono i fulmina in clausula che ricordano Marziale («Scoprendo che la vita ci precede / nel mentre stesso che rimane indietro»). La felicitas scribendi di Ruffilli dovrebbe diventare un testo di studio per i milioni di “acapisti” che intasano gli slam poetry, i festival e internet e che pretendono di aver scritto un capolavoro non appena hanno infilzato qualche metafora astrusa o qualche parolina inzuccherata. Egli ha pubblicato l’opera dopo «un lavoro più che quarantennale». L’eccellenza è figlia del talento, dello studio e del tempo.

Giuliano Ladolfi

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