Luciano
FOLGORE

Luciano Folgore (pseudonimo di Omero Vecchi) è nato nel 1888 a Roma,  dove è scomparso nel 1966. I suoi libri di poesia: Il canto dei motori (Edizione di “Poesia”, 1912), Ponti sull’Oceano (Edizione di “Poesia”, 1914), Città veloce (La Voce, 1919), Poeti controluce (Campitelli,  1922), Poeti allo specchio (Campitelli, 1926), Musa vagabonda (Campitelli, 1927), Liriche (Campitelli, 1930), Il libro degli epigrammi (Campitelli, 1932), Favolette e strambotti (Ceschina, 1934), Novellieri allo specchio, parodie di D’Annunzio e altri (Ceschina, 1935), Mamma voglio l’arcobaleno. Poesie per bambini, grandi e piccini (Magi-Spinetti, 1947). I suoi libri di prosa: Graffa, l’impermeabile (Mondadori, 1923), Nuda ma dipinta (Campitelli, 1924), La città dei girasoli (Mondadori, 1924), La trappola colorata (Mondadori, 1934). Conosciuto Marinetti, nel 1909 aderì al Futurismo, ma nel manifesto “Lirismo sintetico e sensazione fisica”, del 1913, precisò i principi della sua poetica, reinterpretando in maniera moderata le idee di Marinetti. Ha collaborato alle riviste “Lacerba”, “La Voce”, “L’Italia futurista”. Con Ponti sull’Oceano, “Versi liberi (lirismo sintetico) e parole in libertà” e Città veloce, “Lirismo sintetico”, considerò conclusa la sua fase futurista, per la successiva sua produzione lirica più tradizionale. Nel dopoguerra la sua attività diventò soprattutto quella di narratore e scrittore di teatro, di umorista, favolista e scrittore di poesie per ragazzi oltre che parodista di poeti e prosatori contemporanei.

https://it.wikipedia.org/wiki/Luciano_Folgore

https://www.treccani.it/enciclopedia/luciano-folgore/

POESIE

Tutta nuda
Te,
nuda dinanzi la lampada rosa,
e gli avori, gli argenti, le madreperle,
pieni di riflessi della tua carne
dolcemente luminosa.

Un brivido nello spogliatoio di seta,
un mormorio sulla finestra socchiusa,
un filo d’odore,
venuto dalla notte delle acacie aperte,
e una grande farfalla che ignora
che intorno a te
non si bruciano le ali,
ma l’anima.

L’Alba
Gli orti di Barga stavano, pervasi
da un lieve freddo, lieve, così lieve
che a dirlo non faceva freddo, quasi.
Brina? Sì, no. V’era un biancor di neve,
un presso a poco, un nulla, una chimera
e qualche schiocco nella strada breve.
A un tratto parve che dal ciel piovesse
un po’ di guazza, ma non piovve affatto,
com’uno che dicesse e non dicesse.

Musa vagabonda
Se morissi una notte all’ improvviso
no, non vorrei salire in paradiso.
Il paradiso è un sito
troppo fuori di mano,
un infinito pieno d’infinito,
un lontano lontano, assai lontano.
Giunti lassù si perde la nozione
delle cose terrestri e vi si oblia
oltre il dolore e la malinconia
i fatti, le disgrazie, le persone,
che ci han rotto le scatole e avverrebbe
ch’ angeli o santi si perdonerebbe
coloro che ci diedero fastidio
fino al delirio o fino al suicidio.
Invece io chiedo in premio dei miei mali
non la beatitudine, ma il modo
di vendicarmi a fondo di quei tali.
Vorrei morto di fresco entrare a un tratto
nel corpo del mio gatto,
del mio gatto siamese,
dal muso nero e gli occhi di turchese,
che passa tutto il giorno
ad acciuffar le mosche
che gli ronzano intorno.
Perché dentro le mosche prigioniere,
ci stan l’ anime perse dei noiosi
che turbarono sempre i miei riposi.
Ah che rara fortuna, oh che piacere
dar la caccia alle mosche dopo morto!
Spero che Dio, supremo giustiziere,
se ne ricordi e non mi faccia torto.

Silenzio
Il cielo
è diventato una nube,
vedo oscurarsi le tube
non vedo 1’ombrello,
ma odo sul mio cappello
di paglia,
da venti dracme e cinquanta
la gocciola che si schianta,
come una bolla,
tra il nastro e la colla.
Per Giove, piove
sicuramente,
piove sulle matrone
vestite di niente,
piove sui bambini
recalcitranti,
piove sui mezzi guanti
turchini,
piove sulle giunoni,
sulle veneri a passeggio,
piove sovra i catoni,
e, quello ch’è peggio,
piove sul tuo cappello
leggiadro,
che ieri ho pagato,
che oggi si guasta;
piove, governo ladro!

E piove soprattutto
sul tuo cappello distrutto
mutato in setaccio,
che ieri ho pagato
che adesso è uno straccio,
o Ermïone
che scordi a casa l’ombrello
nei giorni di mezza stagione.

L’Elettricità
Festoni di sole polverizzanti le ombre.
Tentacoli violetti
solcanti il catrame dei cieli.
Corone di garrule faville
glorianti le dinamo oblunghe.
Canzoni e fragori
dei larghi motori.
Torrenti di forze remote
nel vortice delle ruote.
L’acqua sciorina un mantello sonoro
sopra i muscosi gesti della pietra,
e chiude nei fili balenanti
gli spruzzi dell’oro,
te, o volontà fulminea,
o libera Elettricità.

Sui ponti del mare, negli archi del cielo,
scatta la tua parola
rappresa nel cerchio delle correnti
e si tendono i continenti
bramosi di quella che giunge
da molto lunge,
di quella che nel varcare
ha rubato i segreti
nel cuore dell’uomo,
e nei cristallini palazzi del mare.
Antenne sfornite di vele,
ma veleggianti ovunque,
antenne ascese in cima alla nave
invisibile,
che non conosce confini,
che lancerebbe ad una nave sorella
i suoi destini
oltre ogni luce di stella.
Voci intricate nei rettangoli grigi,
coronanti
con ferrei fastigi
le case chiostrate di cappe,
voci oscure e diverse,
lanciate così nel metallico mistero,
che vanno pel tramite ignoto
a modulare un pensiero,
nel cuore di un uomo remoto.
Strumenti di forza, arnesi di. lavoro,
manovrati da questa volontà,
traini pesanti,
divoranti con bramosia
lo spazio, il tempo, e la velocità,
o braccia dell’Elettrico
distese in ogni luogo,
a prendere la vita, a trasforrnarla,
ad impastarla,
con rapidi elementi,
o ingranaggi potenti,
superbi figli dell’Elettrico
che stritolate il sogno e la materia,
odo le vostre sibilanti note
concorrere da tutte le fabbriche,
da tutti i cantieri,
per le strade robuste di suoni,
con l’inno dei carrozzoni,
e magnificare
divinamente
la volontà
che ogni prodigio fa
la libera Elettricità.

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