Loretto
RAFANELLI

Loretto Rafanelli è nato nel 1948 a Porretta Terme (BO), dove vive. Ha pubblicato le raccolte di poesie: I confini del Viso (Forum, 1987), Il silenzio dei nomi (Jaca Book, 2002), Le voci del Filadelfia. Il grande Torino (I quaderni del Battello Ebbro, 2005), Il tempo dell’attesa (Jaka Book, 2007); il libro di saggi, prose e aforismi Il sangue della ricordanza (I Quaderni del Battello Ebbro, 1994); il libro di drammaturgia Nelle buie stanze (I Quaderni del Battello Ebbro, 1997), composto dai drammi “I ciclamini di Bosnia” e “Nelle buie stanze”. Dirige la casa editrice I Quaderni del Battello Ebbro, di cui ha curato numerosi volumi, e la rivista omonima di letteratura. Ha realizzato con l’artista Marco N. Rotelli diversi progetti tra arte e poesia, fra cui “Bunker poetico” per la Biennale di Venezia 2001.

lrafanelli@libero.it

POESIE

Il gelo
1.
Croci, croci distese, distese
nelle strade, nelle foci, sangue
sangue come orma esausta,
gli uccelli che deviano dalle terre
nere dove il fango sepolcra
i bimbi, secca terra come
le labbra delle invocazioni
che rifrangono nelle pianure senza
raccolti, gli uni agli altri
divisi al lume della morte.
Il rosso arido dei tramonti
e delle albe, le vecchie
nel loro rimorso di madri,
padri laceri nella guerra
che taglia netto i pinastri, muti
nei fossi a pregare, nel ricordo
cieco alle finestre. C’è un freddo
spettrale in questi bianchi
Balcani, un gelo irto di nomi.

2.
Un gelo irto di nomi
e i bimbi, e i vecchi ancora
fermi nel lento aspettare.
Le braccia nelle forre, nel pianoro
vuoto che giunge al mare,
in una terra amara senza
pupilla col pane secco
nelle mie labbra, e si placa
lo sguardo negli occhi
dei fratelli. Non torna
più la neve, ora rade e urta
il grecale i corpi. Le donne
nel silenzio della maternità
che uccide, nella mano
che insanguina i fiumi,
e tutto il campo
è una piaga di marmo.

3.
Una piaga di marmo nei silenzi
degli uomini ciechi sul fronte.
Bisanzio malata di fango
nelle città dove la peste assedia
le lacrime. Le pianure
sono colme di occhi di limo.
Le montagne non hanno
più alberi per scavare la terra
dei morti ai piedi dei rossi prunalbi.
L’inverno arriva alle nostre mani
col bianco di uomini lontani,
giorni che gelano le ginocchia
ai figli, e gli spari
nelle vie si perdon nelle voci.

4.
Nelle vie si perdon nelle voci
i corpi, le bandierine
che indicano le stagioni, issate
nelle braccia dei bimbi. Giunge
il giorno e la luce è dipartita,
perduta, nella notte più scura.
I mendicanti si avviano
alle madri con sospetto,
e nelle piazze l’orizzonte è perso
tra le mani alzate degli uomini
in fila, mentre tutto si scolora.

5.
In fila mentre tutto si scolora
i figli piangon le madri
fissi gli occhi nel rosso cielo.
Perduti nella muta complicità
paterna, questo padre privo
del nome, assassino sulla carne
morta, cieco nelle strade
che da Cracovia a Dubrovnik
segnano il tempo di una ferita
vissuta nel gelo degli antichi
sguardi. Tremando
per questo giorno che sfibra
le pupille, andiamo avvolti
tra le macerie di un panno
povero e freddo, con le preghiere
della amarezza spoglia
della sera nel nostro bivacco.

*
Il canto di madri giunge
al crinale del tempo e le trecce
delle ragazze si fanno velo consunto.
Negli avvolti lenzuoli, in una luce
di vetro, i giovani sono ordinati
e immobili nel viaggio che dall’argine
giunge al sonno perenne.
Nel ricordo estremo delle voci.

*
Nelle notti i figli vestiti
di bianco pettinati dai morti,
noi tremanti a cercare un amore
in un silenzio che mura
le vesti di nomi. Il tuo viso
pesante di fronte all’argine
alto che l’acqua
cancella ad ogni stagione.
E vivi muto come l’esiliato
nella città deserta, tra le croci
di carni, e mi dici di te,
della tua fine e mi guardi.

*
Colmi di grano nelle vie i carri
in un sorriso di neve,
con l’esile straniera che occhieggia
i campi deserti e il volo cieco
di una rondine nella bruma notturna
come le donne giù alla marina
che hanno le mani giunte
e le navi vergate nei sogni
mentre attendono curve
nella nera veste.

*
Saremo in un gelo pieno di braccia,
nel lutto estremo come la pena
della donna che lenta ripone gli abiti
smessi da una morte.
E la distanza lacera ancor prima
che il dire piombi ogni cosa
e trascini i corpi oltre il fiume,
oltre le città, nella terra senza nome.

*
Le vesti nere erano per gli occhi
dei viandanti un grano
amaro. Odori forti
in quella estate sulle aie
quando i carri passavano lentamente
e solcavano la proda.
Vicino si attendeva
una luna marina,
le case sfumavano in una foschia
che non lasciava tracce sui nostri volti,
e il freddo giungeva e portava
sulle notti il suo silenzio.

Torino
Era un inverno freddo
quando Meroni morì con la benda
granata che gli fasciava la fronte,
mentre Ferrini era l’eroe coraggioso
dei ragazzi nel campetto vicino al fiume.
Bandiere, bandiere che scavano
le labbra, segnano la carne
e ci parlano dell’audacia
di guerrieri misteriosi.
Io lo ricordo quando gli uomini sulle gradinate,
dopo i suoi slanci di fuoco verso
la rete, guardava senza un sorriso:
Pulici era la forza disperata
di genti che la terra nera del Filadelfia oppone.
Volti segnati da una disgrazia
antica, con le croci
nel verde campo come sentinelle
abbagliate dalle grida
della domenica.
Il colore che le maglie rendono
intenso, il colore granata
che nelle pupille scava
e strugge fino al cuore.

*
Si spengono in un orizzonte di neve
i canti delle madri che invocano
con occhi di sale.
E il pane delle notti, degli uomini,
delle voci vicine, a vigilare
in una carne abbandonata,
tra le campagne sacre e solitarie,
nel vento che porta i nomi
di un tempo in un buio amico.
Nel silenzio che s’incela tra le curve
rosate di fine estate, nei fiumi
lontani che le sere riversano
nelle ampie pianure. Nel canto di donne
bianche della vita. Nei ricordi
che lasciano la soglia priva di luci.

*
Luce che scendi sul muro
alto della radura, luce che scendi
diafana sui letti, luce
pallida come croci
nella notte avvolta nel mistero
degli elmetti che riempivano i campi.
La notte dei giocattoli, quella che porti
nel limitare dei tuoi occhi. Sul marmo
da un eterno andare segnati,
è stretto tra i visi il mare che fa
sangue da luogo a luogo senza franare.

*
Ci venne incontro e portò
le mani giunte all’invocazione,
noi muti, tesi nella direzione
di un lume che si sfuoca alle pareti.
La preghiera sentimmo giungere
alle labbra. Chinammo
il viso verso la terra nera,
senza più croci,
senza più afflitti, soltanto
la fine neve vergava il volto.
Le mani strette ai giocattoli,
rimanemmo a lungo nel greto
del fiume che portava il respiro,
mentre l’inverno era finito.

*
Le voci, padre, le senti nella notte,
o in questa ora della veglia,
quando guardi e là oltre il mare
le donne attendono il tuo
amore. È una sera in cui le madri
sciolgono i capelli e nei letti
stringono i bianchi vestiti
delle nozze, sole nelle sponde larghe
dove i figli sono passati
e vanno ora coi loro figli a cercare
sulle rive dei fiumi il sangue
dei padri, poveri, sempre
più poveri, con questi pani neri,
insaziabili, in quell’odore forte
di quell’estate. Tu la ricordi,
padre, era mattina presto
e la mano era vicina.

*
Canto di una pena muta
nel poco di una luce,
in una croce, in un evento
che rade il tempo dell’antico
volto. Gli occhi che fissano lontano
le stanze bianche, e invocano:
“stringimi la mano, sorridi”.
Il canto di Dio dilungava
nelle labbra la gioia e sfiorava
i capelli nel gelo pungente,
accanto alla stufa rossa
di mattone che cuoceva
il volto, e avvicinava a noi
lo scarso pane.
Abbracciamoci ancora, padre,
senza fissare il silenzio più grave,
in quest’ora santa e segreta.

*
Li senti battere al portone
e li scorgi uno a uno,
mentre si perdono
come piccoli fuochi nelle terre
scure e nei poveri campi
vedi le mani che sono morti
segnali, pupille algide.
Il cielo non sporge
la sua volta di luci, e appare
come folla adagiata sui marmi,
adagiato nel silenzio tremante
a seguire un’esile ombra.

*
Ascolta il silenzio dei giorni,
il colore bianco del vento,
come un mare che mura le notti,
e la dolce parola giunge
dalla pianura agli sguardi
dei vecchi, in questa fredda
urna dove il bimbo felice
alla torre rivolge
la tenera occhiata del tempo, quando
i carri solcavano le pietre
di sangue e il grano
nel suo odore di polvere
invadeva i portici,
oggi l’occhio di marmo
entra nel volto della giovane donna
che la piazza specchia
su un lastricato di lumi.

*
Batte nella notte il suono metallico,
il gelido tocco che rende le pupille
deserte. Batte nel tempo il mattino,
ed erge fisso nella pianura il volto
dell’uomo mangiato dal sole,
che accompagna il transito
segreto dei figli. Perse le tracce
nel letto rifatto, rimane
una croce, un ricordo di terra.
Ai legni la rugiada
marina punge e arrossa
gli occhi silenziosi dei vecchi.

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