LA RICERCA DI SÉ DI CLAUDIA M. TURCO

LA RICERCA DI SÉ DI CLAUDIA M. TURCO

Espressione di un’anima gentile e travagliata, questo libro dal titolo ironico e agrodolce, Neraneve e i sette cani – Storia di antiche violenze (Italic), si presenta al lettore in tutta la sua nudità, il suo candore, la sua atroce, sublime rivelazione. Rivelazione di una vita condotta all’insegna della ricerca di un proprio io  – quello della stessa Autrice, Brina Maurer, alias Claudia Manuela Turco – soprattutto contro la Violenza e la Crudeltà, in qualunque forma esse siano perpetrate nella nostra società. Proprio Alla ricerca di sé è intitolata la prima sezione del libro. A sorreggere quest’assunto c’è un filo-animalismo coniugato a un pacifismo di fondo: veri fari di un percorso esistenziale di cui il poema in questione intende testimoniare drammaticamente, ma anche come in una sorta di fabula domestica, le varie tappe personali, dall’infanzia all’adolescenza, fino all’attuale maturità. Colpisce, di fatto, fin dalle prime pagine, l’allure diaristica, mista a una delicata affabulazione fiabesca, ora tragica, ora tenera, ora straziante, ora soave. A esserne protagonisti sono sette cani, che sono stati (e anche in futuro sempre lo saranno) compagni fedelissimi e affettuosissimi dell’autrice, palinodicamente denominata, in questo denso poema, Neraneve: rovescio o sconfessione ironica della ben più celebre Biancaneve i cui sette nani qui sono appunto i sette cani che hanno accompagnato fedelmente la nostra neo-principessa. Ecco allora che, attraverso il susseguirsi dei cani Mileto, Diana (uccisa crudelmente), Susanna, Tara, Tamara, Glenn (il cane in cui Neraneve meglio riconoscerà “le proprie fragili ossa”) e infine Mughetto, sfilano cronologicamente luoghi personaggi circostanze episodi biografici in cui questi compagni-animali scandiscono il viaggio terreno della loro custode-poeta-biografa. Il tutto articolato attraverso il ritmo cadenzato della narrazione-in-versi, fedele, in questo, a un principio poietico che richiama irresistibilmente un libro di Nelo Risi, significativamente intitolato Di certe cose che dette in versi suonano meglio che in prosa, opera di poesia tra le più intense del Novecento italiano, che fra l’altro nel 1970 valse a Risi il Premio Viareggio. Sono versi, questi di Neraneve di Caludia Manuela Turco, che raccontano storie di violenze e di soprusi contrapposti alla ricerca di un Candore, di una promessa d’innocenza che forse solo il mondo animale (i cui rappresentanti identificati nei cani sembrano essere gli unici esseri che dimostrano di possedere un’anima) può donare all’umanità senza chiedere alcuna contropartita. E davvero vivi e coinvolgenti sono i regesti di alcuni momenti esistenziali rivissuti in questo poema, soprattutto quelli relativi all’infanzia e all’adolescenza, spesso documentati in modo straziante: si leggano esemplarmente componimenti come “Scure di luna”, “Bagno di sangue” e “Ingiallimenti” (quest’ultimo segna forse l’apice più tragico e amaro). Pure, a petto di tutta questa travagliata Erlebnis, ecco farsi largo, a tratti, squarci improvvisi di tenerezza e di pura quanto visionaria liricità: «Per accendere/ fiammiferi nel buio,/ cara Virginia Woolf,/ a volte basta immergersi/ con lo sguardo/ in un cielo stellato,/ e bagnare le ciglia/ degli umori della notte.// Nell’eterno abbraccio/ la catena si libera dei ceppi,/ e il giorno si fa luce verde.» La Poesia può, allora, allungare la sua mano salvifica; la Poesia – dico – che, sola, è in grado di armonizzare un corpo e un’anima dilaniati. Cito la vibrante chiusa del componimento “La violenza delle immagini”: «Neraneve/ camminerà per le strade del mondo,/ con anima e psiche violentate,/ ancora e ancora,/ da edicole e vetrine,/ da mass media parole e immagini,/ da corpi oggetto di vendite e offerte.// Solo il profumo della poesia,/ in pittura,/ riuscirà a riconciliarla/ con se stessa./ Con il suo corpo.» E saranno ancora e sempre i suoi cani a regalarle quel “riscatto” antropologico che non sempre gli Umani sono (stati) in grado di offrire senza nulla richiedere. È il caso della cagna Tamara, salvata dalle fiamme da Neraneve, in quegli anni giovinetta allo sbando, al centro di una famiglia in disfacimento, in mezzo a continui litigi dei propri familiari. Tamara, dunque, diventa la sua compagna di (s)ventura; Tamara sua consolatrice; Tamara sorella di Neraneve (“davvero sorella,/ davvero fiamme della stessa candela”), fino a quando sarà vivo il filo che le terrà in vita; loro che in fondo sono i “soli vivi tra i morti”.  È a quest’altezza, ossia quando l’autrice arriva alla rievocazione di Glenn, il sesto cane, che lei si dà una ragione di vita: la ragione centrale di un Femminino assoluto che possa anche escludere la maternità, non in un senso solipsistico/egotistico ma, sulla lunghezza d’onda dell’insegnamento di una Marguerite Yourcenar (richiamata due volte in epigrafe alla soglia del poema) e di una Virginia Woolf, sentirsi – pur senza figli – impegnata a essere utile per i figli di altre donne (“Le donne senza figli,/ possono fare tanto/ per i figli delle altre”). In effetti, tutta la seconda sezione del libro (L’handicap di Byron) è incentrata sulla figura di Glenn, nel quale Neraneve riconosce se stessa a cominciare dalle “proprie fragili ossa”. Creatura con la quale condividere il proprio mondo, Glenn (cane sul quale l’autrice tre anni fa ha già pubblicato il libro Glenn amatissimo) diventa da subito il compagno ideale insieme con il quale combattere la cieca brutalità degli uomini, la loro arroganza e ignoranza. Crescere insieme con lui è capire che l’amore è conoscenza e presenza, nel rispetto della democrazia delle anime. Il loro legame affettivo è sinonimo di “fuoco e acciaio,/ sete e scintilla, velluto e pioggia di stelle.” I versi del poema, a questo punto della rievocazione biografica di Glenn, si concentrano in una versificazione di lancinante forza espressiva e immaginativa: un tour de force in cui le parole sembrano distendersi spasmodicamente come in un tentativo estremo di fondere magia di natura e magia del corpo, in uno sforzo supremo di amorosa coniugazione vegetale/animale. Si veda, emblematicamente, il componimento “Nel bosco incantato”, ricco di suggestioni zanzottiane intrecciate al poema drammatico Manfred di Byron su cui Schumann avrebbe scritto una celebre ouverture, e anni dopo Čaikovskij avrebbe composto una delle sue più potenti sinfonie. Indubbiamente questa, a mio avviso, è la sezione più vibrante e letteralmente commovente dell’intero poema; sezione nella quale viene seguito con sentimento fortemente partecipato l’intero excursus esistenziale di Glenn fino alla sua morte. Neraneve, in una sorta di sublimazione metafisica, avvertirà una simbiosi totale con il cane che la sua morte non potrà mai disciogliere: Glenn sarà il suo alter-ego, il suo spirito vitale, la sua coscienza, il suo canto sacro, il suo mantra.  Cito esemplarmente le due stanze finali: «E sul letto,/ il compasso tra il braccio e il fianco/ non stringe più la vita;/ nel vertice dell’ascella/ non fruga più,/ il tuo nasino sorridente.// La mano/ accarezza il copriletto di marmo,/ ma io sento il fuoco./ Perché memoria/ è vita che non muore.»  Il poema di Claudia Manuela Turco si conclude con la terza sezione intitolata La perfezione nella quale campeggia la figura del settimo cane: Mughetto, alias Principe Maghetto o Victor Mhugo. Sarà questo “Principino Azzurro” a saper rieducare “il cuore rattrappito” di Neraneve e a ritemprare “il suo spirito rattoppato”. In lui la donna riconosce il proprio contrario, e dunque questa complementarietà spirituale sa donarle idealmente la perfezione, cioè tutto ciò che le manca. E, al pari del grande scrittore francese, Mughetto-Victor Mhugo, “adora l’odore dell’inchiostro,/ addenta il cappuccio della penna,/ annusa le pagine del vocabolario.” Quest’ultima sezione sembra ritrovare quella gioia primigenia grazie al “divo ballerino” qual è Mughy.  Ma il tono della poesia, dopo la gioiosa sarabanda scaturita dal comportamento sprizzante del Principino Azzurro, comincia a farsi più riflessivo, a tratti perfino pedagogico (mi riferisco in particolare agli ultimi tre componimenti), fino ad arrivare ad alcuni ragionamenti a mio avviso quasi filosofici, laddove, per esempio, Neraneve si scaglia contro coloro che la rimproverano “di essere un melo senza frutti”, ignorando il libero archetipo del suo femminino di cui lei è simbolo e messaggera. Così, a proposito dell’episodio emblematico da lei raccontato, in cui in un incendio qualcuno lasciò morire un cane per salvare un bambino, e quel bambino divenuto uomo stuprò la figlia del suo salvatore, si potrebbe obiettare che quel salvatore del bambino non poteva certo sapere, nel momento in cui lo sottraeva dall’incendio, che il piccolo un giorno avrebbe stuprato sua figlia, ché ogni gesto di salvazione è frutto di una generosità istintiva, fine a se stessa. Poema di riscatto e di catarsi profonda, Neraneve e i sette cani resta un trittico poematico fluido, fiabesco e complesso; indica un luogo ideale in cui regnano la Pace e l’Amore, l’Armonia e la Gioia, in definitiva la felice concordia del vivere; un Locus Amoenus, in cui vivere o morire – per dirla con Breton – non sono che soluzioni immaginarie, perché la Vera Vita è altrove. Da qui anche il sentimento, a lettura ultimata del libro, che l’autrice nello scriverlo si sia come liberata di un peso, quasi avendo saldato un debito etico con se stessa.

Luigi Fontanella

Prefazione

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