Luigi
CABRAS

Luigi Cabras è nato a Villasor, in provincia di Cagliari, nel 1927. Lasciata la Sardegna nel 1946, si è arruolato nel Corpo della Guardia di Finanza, dove ha prestato servizio fino al 1983. Viveva a Sesto Fiorentino, in provincia di Firenze, dove è scomparso nel 2020. Ha pubblicato le raccolte di poesia: Il Golgota nel Cuore (1977, ristampato nel 1990 e nel 2010), Una Collana di Parole (1989), Itinerari dell’ Anima (2008), Melodie d’Amore (2012), dedicato al figlio Marcello morto prematuramente a alla moglie Maria, anch’essa deceduta dopo una grave malattia. Tra Memoria e Sogno (2013), una sorta di riepilogo del lavoro poetico di una vita. Segnalato all’attenzione più generale con l’assegnazione nel 1983 del premio “Lerici-Pea”, ha collaborato negli anni a varie riviste letterarie ed è presente in numerose antologie poetiche.

POESIE

IL GOLGOTA NEL CUORE
Vivere, sognando
di trovare un sasso
dove posare il capo,
con la forza sovrumana
di non maledire
il corvo che rode
il fegato dell’anima,
in catene
sulla rupe nera
di un ossessivo ricordo.
Vivere,
sudando sangue
tra le sterili sabbie
di un’ultima spiaggia
di giorni e notti
con il Golgota nel cuore

LASCIANDOCI SOLO IL SOGNO
Sono salito col mio passo di sterpo,
che rotola al guinzaglio
dei soffi di brezza dell’autunno,
in cima alle guglie martoriate del cuore
e ho chiesto di te
ai vagabondi silenzi del cielo.
Con strida gioiose di rondini
e con glicini già fioriti, aggroppati
a muri di cinta di cortili, ho detto
che un giorno ti avevamo vista partire,
con un mazzo di rose rosse pestate
tra le braccia incrociate sul petto.
Così ho saputo del tuo canto
che ora si perde, lontano,
tra sentieri stellati di galassie
e che sei una bellissima fata
corteggiata dagli angeli
e la tua casa di genziane è tra boschi
di smeraldi dove gli alberi
sono arpe e flauti suonati dal vento
e puoi vedere la mano che accende
quell’immenso fiume di luce
che ci desta dal sonno i mattini.
Dirò perciò a tua madre
di non piangere più per te
se un turbine, un giorno di primavera
ti ha rapita per gli angeli,
lasciandoci di te solamente il sogno.

LE TUE VIOLE
a Giovanna per la morte

di sua figlia Bettina
Non stare lì sull’uscio
con quella veste nera appesa
sulla gruccia delle tue spalle
ad attendere voci di vento
che ti parlano di viole.
La primavera si è spenta
deviando i suoi profumi
su neri itinerari di galassie,
dove tutto si è disciolto
con giochi di nebbie
su spettrali giardini di silenzio.
La stella è caduta,
una sera alla fine di marzo,
con pugni stretti
tra lunghi capelli di cenere
e rantoli di gazzella
abbattuta sulla pista verde.
Non stare lì sull’uscio:
di là dal ponte, sul greto
del rigagnolo che ti ricorda bambina
guardando girini sommersi
tra radici limacciose di falaschi,
hanno gettato a marcire le tue viole.
No, non stare così, a frugare
con l’unghia degli occhi esausti,
la piaga del ricordo ossessivo
di quella pozzanghera rossa,
dove i druidi gettarono
a marcire le tue viole,
bruciarono i tuoi sogni di madre,
una sera, alla fine di marzo.

TACETE CAMPANE
Tacete, strade tormentate
da rumoroso traffico,
crocicchi e marciapiedi,
animati
da viandanti spensierati.
Tacete per un attimo
campane che squillate
festeggiando l’esistere
che circonda la mia pena.
Perché, vedete,
ho bisogno di silenzio,
per ascoltare se il vento
mi porta la voce familiare
di un grande amore che ho perduto.

L’ACQUA CRISTALLINA DEL SILENZIO
Come se non bastasse questo fragore
ossessivo di risacca sciabordante
sugli scogli della mente, c’é questa bruma
che l’anima vorrebbe respingere
oltre il disegno azzurro dell’orizzonte
che incornicia il mattino
illividito dal gelido vento di dicembre.
Vano è l’istintivo difendersi del sangue
abituato da generazioni a climi più miti
in paesi con fiumi di sole
al posto delle strade, dove non passava
che l’acqua cristallina del silenzio.
E tenta ora la fuga l’ala del ricordo
di caldi pomeriggi, con rondini
allacciate ai fili della luce che andavano
da palo a palo, lungo la linea
dei muri calcinati, costruiti con mattoni
di fango e paglia seccati al sole.
Col segno di vita che esplode improvviso
con l’abbaiare di un cane che forse
ha sognato, sotto il fico nel piccolo spiazzo
polveroso del cortile, la fuga di una lepre
tra i cisti e gli asfodeli della vasta pianura…
Era quello tempo di pensieri e membra
martoriati dalla terzana, di giorni vissuti
in abbandono, alla deriva tra i flutti del destino,
in un luogo dove il tuo seme, per caso
era caduto tra i sassi e le spine dell’esistere.

TI STO GUARDANDO
Ti sei accorta
che ti sto guardando
e forse ti stai chiedendo perché,
perché ti guardi così,
con occhi sommersi di silenzio.
Ebbene, forse
non lo saprai mai
perché ora il mio pensiero
e rapito dalla tua bella immagine
e ti guardo in silenzio.
Vedi, dirtelo sicuramente
ti farebbe male, ti turberebbe.
Ti sto guardando, mia cara,
per quando non potrò più vederti,
come ora ti vedo,
e forse, l’immagine di te
che ora affascina i miei sensi,
non sarà più l’amore che ora viviamo,
l’amore che vibra, quando ti abbraccio,
in ogni cellula di questo mio esistere.

TURNO DI NOTTE
Forse l’inganno è in questo silenzio ,
nel buio che scava la carne
con bisturi d’insonnia,
con addii di gioie che la notte
riesuma da sedimenti di memoria.
La sofferenza ora è cecità, è cercare invano
labbra seducenti di rose
nel volto sorridente di maggio.
Non è maledire il mondo
chiudere gli occhi
e sognare la luce del sole,
l’alba verde sulle fronde
di questi fantasmi d’alberi…
Ma forse il male peggiore
è dimenticare che comunque
il cuore resta per amare tutto,
con l’orecchio da accostare
all’uscio dell’anima che vive.

TRA MEMORIA E SOGNO
Mi chiedo perché sono qui, il perché
della coordinata che ha stabilito
il punto della mia esistenza, qual è l’esatto
rapporto tra me e la Mente che l’ha disegnata.
Mi ascolto ritmare ossigeno perché sia vita
l’impasto di terra e acqua che io sono
e mi chiedo perché sono qui – realtà di materia
e intelligenza, arbitro tra memoria e sogno.-
Qui, a guardare la pelle delle mani
che avvizzisce, cercando di spiegare
la mia sofferenza di alga sommersa, che cosa
conterà la mia effimera stagione di foglia,
se in fondo agli occhi resterà la luce o il buio…
Mi chiedo perché sono qui tentando
di decifrare il codice misterioso del mio Essere,
cercando di dare un senso al rebus di silenzio
che pulsa vita, ora, attimo per attimo,
tra mio passato e mio futuro…
Su questa piattaforma di lancio, col cruccio
irrisolvibile della mia tremenda dimensione di Uomo,
a scandire conto alla rovescia di mio tempo,
aggrappato a scogli di “forse”, con la percezione
del cuore che batte sulle punte delle dita premute
alle tempie, memoria che sulla palma dell’anima
resta, sempre un segreto di speranze,
comunque un ideale d’amore a giustificare tutto.

LE CALCINATE PETRAIE DEL SUD
Dovremo forse maledire il vento
se il vento non sapeva
di ordinate e ascissi,
che ci fosse una terra paria,
e il nostro seme fu lasciato cadere
là, tra le calcinate petraie del “sud”.
Ora, con cicatrici mai chiuse nel cuore
che fu gozzoviglia di corvi,
con vessilli di via crucis rimaste
sommerse in bassifondi di memoria
e carismi d’anni di cayenna nell’anima,
per vivere sogniamo il giorno
che avrà il cristallo dell’alba frantumato
dal pugno delle nostre speranze esaudite.
Forse, prima di morire,
sfuggiremo all’orbita di una nemesi
ormai sazia e lasceremo almeno i figli
eredi della gioia di potere sorridere,
perché sarà esorcizzata
l’antica maledizione che marchiava
la pelle alle nostre tormentate insonnie.
Perché più non potrà ucciderci
il sogno d’erba negli occhi del daino
che muore d’inedia sulla neve,
saremo riusciti a far giungere
il nostro grido d’innocenti
all’orecchio del Dio dei diseredati;
saremo riusciti a convincere noi stessi
che non è giustizia accettare
di essere nati soltanto per soffrire.

CERCO DI CAPIRE
Ho il cuore appeso
a chiodi di silenzio.
Bruciano lentamente
ceppi di antichi ricordi
in camini di solitudine.
Tasto, con la cieca
mano dell’anima,
muri di speranza, camminando,
con la mente
che non saprebbe dove arrivare.
E approfitto dell’immediato
tempo che scorre
cercando di capire, qui,
schiacciato da questo cielo freddo
che resta buio sopra il mio capo,
che questa notte è quella di Natale.

NON SOTTERRARE LA SPERANZA
Non maledire la terra, perché
la terra non ha colpa.
Maledetto è stato il braccio
che fece roteare nell’aria la fionda
col sasso della tua esistenza.
Non sotterrare la speranza
nel muschio dei crepuscoli estivi
che non hanno il profumo del mirto
e scolorano in livide brughiere
dove non fiorisce la ginestra:
un autunno di giorni scontati forse
ridarà le ali alla rondine del tuo cuore
e ritornerai in paesi di sole.
Sai, ancora c’è l’antica siepe
di biancospino qui, dove ha lasciato
le impronte la tua fanciullezza,
e la primavera con papaveri fioriti
e fiordalisi in mezzo al grano verde:
potrai ancora specchiarti
nell’acqua dei tuoi antichi sogni.
Presto avremo liberato dalle strigi
le antiche torri di questa terra:
potrai lasciare la tua odierna Babilonia
e vedere finalmente diluita per sempre,
nella luce bianca di un nuovo mattino,
l’insonnia che ora ti tormenta
con l’immagine della tua vecchia madre
che ha un nido di corvi nel cuore,
rimasta, scavata dall’ansia,
a scrutare l’orizzonte sulla riva del mare.

È MEGLIO CHE TU NON ABBIA VISTO
È meglio che tu non abbia visto
la strana immobilità dei suoi occhi
verosimilmente chiusi nel sonno.
Sì, è meglio che tu non abbia visto
il bel volto della giovinezza
spiccare il volo verso
le misteriose lontananze dell’eternità.
È meglio che tu non abbia visto
l’innaturale secchezza
di quelle labbra d’amaranto,
con la parola “addio”
espressa da un surreale silenzio.
È meglio che tu non abbia visto
le belle mani pallide sul suo petto
posate una sull’altra,
nella punta delle dita il piccolo callo
formato dalle corde della chitarra
che ora ci resta appesa al chiodo
delle cose che più non servono.
È meglio che tu non abbia visto
l’agghiacciante altra faccia
della medaglia della vita
e l’ibisco vermiglio dipinto sul raso bianco.
Sì, è meglio che tu non abbia visto.
Ricordalo com’era,
quel giorno di settembre, a Lerici
col cuore traboccante di gioia di vivere.

FORSE È NECESSARIO
Forse è necessario
che il pugno spietato
di ogni nuovo giorno bussi
alla porta dell’anima
per ricordare
con le prime luci dell’aurora
che la croce è lì, sull’uscio.
Rimane l’ansia di capire
il bisogno di credere
che qualcosa c’è in fondo alla via,
in fondo all’orizzonte brumoso
del troppo costoso esistere:
è sufficiente
il valore del “perché”,
la ragione che giustifica
l’ossessivo insistere
dell’immane urlo di dolore
che è nel vento che ci travolge
e che la coscienza inerme ascolta,
sente passare come una lama
da parte a parte,
nel suo cuore di paziente silenzio.

TI CREDEVO GALASSIA
Ti credevo galassia, lontana
anni luce da me,
lontananza irraggiungibile.
Ti credevo soltanto sogno.
Sei invece sole
che sbriciolo tra le dita.
Sei flauto che suono
con le labbra dell’anima.
Eri un’isola perduta
nell’immenso oceano
dei desideri proibiti.
Eri spettrale mattino
di un altro mondo sconosciuto.
Non sapevo che potevo
plasmarti e poi alitarti
donandoti l’anima
con magiche parole d’amore.
Ora sei con me, uscita
dal mio costato e gridi,
viva di carne e sangue,
tra le braccia del mio esistere.

TI GUARDO E TI VEDO
Ti guardo e ti vedo – farfalla
che danza nel sole – primavera
che sorride nel tuo volto e lieta canta
con margherite ricamate
sull’ampia verde distesa dei prati
e mandorli fioriti nell’aria -.
Vedo cieli di rondini che tornano
nei tuoi occhi ridestati
da un sonno di antichi mattini,
la prima pietra posata
col giuramento scolpito nell’anima.
Ti guardo e vedo inalterata
l’immagine profonda
sotto l’ossido della prime rughe
e di parecchi capelli bianchi
spalmato dalle mani del tempo.
Penso al cammino abissale
che hai percorso per incontrarmi
e a quello mio per raggiungere
l’arenile sperduto del tuo esistere.
Non è possibile che qualcosa
possa ormai dividerci:
gli anelli delle nostre orbite sono stati
saldati per sempre
dalla fiamma ossidrica dell’amore,
che continuerà, sono certo, anche
quando ce ne andremo
a villeggiare nei mari del sud dell’eternità.
Con questa gioiosa certezza ti guardo
mentre nel crepuscolo che avanza
ascolti il silenzio che passa
con profumi di tiglio nel viale
di quest’altro irripetibile giorno di giugno
che docilmente ci muore tra le braccia.

IL TUO VOLTO DI CARTA
Accarezzo il tuo volto di carta
e leggo negli occhi tuoi
una lontananza di galassie.
Mi raggela il tulle azzurro
di quel mare infinito
d’orizzonti polverizzati.
Spiuma nell’aria l’immagine
del tuo ricordo, rondine
nel vento d’autunno che scrive
addio su lavagne di crepuscolo.
Ancora fiori parlano di te
al di sopra del silenzio
stanando il grido della sera
gettata a marcire
nella scarpata dell’anima.
Vivo ora il moncone di tempo
rimasto sulle mie spalle,
col ramo dei giorni spezzato,
l’anima dell’esistere affogata
in una pozzanghera di delusioni…
Guardo ora il tuo volto di carta
e leggo negli occhi tuoi
lontananze d’eternità, sulle labbra
serrate l’abissale tuo silenzio,
la tua domanda alla quale
non può rispondere la mia umanità.

SOTTO UN OLEANDRO IN FIORE
Morte per overdose
Non avete mai visto un insetto
con la vita incollata per sempre
a una tela di ragno?
Guardate pure e ascoltate il grido
spento in una pozzanghera di silenzio.
Guardate: è il sogno che ha perso
irreversibilmente
tutto al gioco con la realtà.
Oggi qui un cespuglio fiorito di rose,
il sole sulle ali della farfalla,
le note melodiose di una bella canzone
hanno perso il loro fascino.
Guardate il volto della disperazione
cristallizzata
negli occhi vitrei della speranza
morsa al braccio da un aspide. Guardate,
ma tacete la parola “amore”:
è già necrosi sulla carne
di cane bastardo da seppellire…

TURNO DI NOTTE IN FABBRICA
Notte… memoria
di un gregge di raggi di luna
che brucavano cespugli di silenzio,
mano che ricamava sull’erba la rugiada,
macchiava di sangue l’aurora nell’orto
con i fiori aperti del melograno.
Una volta, vedi, la notte
era il cuore
quiete di foglia senza vento,
carne e sangue,
oblio d’alga che riposa
in fondo all’oceano cosmico,
era dormire, sognando
di cacciare la pernice con la fionda.
Una volta, vedi,
la notte non era
l’oracolo di una divinità bastarda
che bisogna ascoltare
per stare al passo con i tempi,
la rata dell’esistenza da pagare
alla fine di ogni mese,
non era la corda spezzata:
era il canto dell’arpa dell’universo.
Ora è qui cilicio d’insonnia tarlata
da un’ossessione di lamiere battute,
scudiscio negriero del sistema
che inebria con la droga di mirra
dell’osso che si getta al cane,
prima di giocarsi ai dadi
le vesti dell’anima: vedi,
con questi ingranaggi
che una volta erano Uomini.

RICORDO DI UN GRANDE AMORE
per Maria
Ho visto stamani un tripudio
di grappoli di glicini fioriti che pendevano
che, mossi da leggero vento, oscillavano
sopra il mio capo, da rami che avevano
scavalcato una ringhiera che chiudeva
il giardino di una casa dando sul marciapiede
della strada dove io stavo passando.
Camminavo piano, a passettini da vecchio,
accompagnato dal mio fedele bastone
che mi protegge dalle insidie contenute
nella malignità di una mia sofferenza.
Ho ammirato quei racemi azzurro-violacei
e avrei voluto coglierne qualcuno per gustare
il suo intenso profumo, ma restavano più in alto
di quanto io avrei potuto allungando il mio braccio.
E, pensando a te, mia cara, che curavi
alcuni arbusti rampicanti di glicine lungo
una siepe di gelsomino, che avevamo
in quella casa di montagna dove si stava
per tanti mesi, dalla primavera all’autunno,
perché la tua malattia non ti consentiva più
di trovare pace in città, dove avevamo
perduto quel meraviglioso figlio di 24 anni…
Pensando, a questa mia solitudine
e a questa mia attuale sofferenza, ho sentito
quanto mi strazia il cuore, l’unghia del tempo
mio che passa, soffocato da tristezza e malinconia
per averti perduta, col mio cuore che non è più
capace di cogliere nemmeno l’innocente
musica dei racemi fioriti dei glicini, né la gioia
di un sorriso, che non scorgo più nel volto
della primavera, ora qui, in quest’orrida realtà,
con l’essenza di una tua immagine che,
altro non è, se non il vuoto silenzio di un sogno.

L’EBBRO SOGNO DELLA SPERANZA
Essere vecchi e non sapere che fare,
perché in fondo ai calcoli del tempo
già tutto è stato fatto di ogni giorno
della vita che resta ormai fatta
di solitudine, affrescata di silenzio
nelle pareti dell’umanità,
che cerca di opporre resistenza
allo scempio di cui si è pervasi…
Sì, opporre resistenza, ricercare
motivi plausibili per continuare
a mantenere un nome legittimo
al vivere, anche se costretti a restare
in piedi solo appoggiati al bastone
per non cadere mancando l’equilibrio.
E riscoperta è ancora la riflessione
che all’uomo resta il mistico pensiero
dove può rifugiarsi richiamando
al suo aiuto la filosofia,
sua passione negli antichi studi
quand’era giovane amante del sapere.
La filosofia, e la fede in Cristo,
dove tutto è possibile nella preghiera.
E torna il ricordare, con l’ascolto
di musica sinfonica che accende
nell’anima la fonia della parola
Speranza, e nel volto dell’umanità,
il sorriso del cuore ormai in festa.
E la vecchiaia è vinta col silenzio
diventato musica che consola
insieme all’ebbro sogno della Speranza.

UN ALBUM PER L’ETERNITÀ
Questa è la sola occasione per farlo.
Conserverò
limpide immagini di cielo azzurro
e della Terra con monti e mari, tutti
i colori e i profumi, la bellezza dei fiori,
campi di grano in aprile ricamati
di papaveri e fiordalisi; boschi conserverò
con laghi alpini e tramonti d’autunno,
notti di luna e musiche
con aurore di cristallo conserverò.
La voce umana che felice canta,
la gioia di amare e l’estasi
dei rari momenti di felicità vissuti,
il volto che sorride di mia madre
e di mio padre, della mia donna e dei figli
conserverò nell’album della memoria…
Perché tutto questo esistere resti
con me a ricordarmi che sono stato Uomo,
in questo sperduto punto dell’universo
chiamato Terra, ovunque sarò,
con la certamente indistruttibile
polvere cosmica della mia essenza,
con la divina sostanza della mia anima
immortale, immagine e somiglianza di Dio.

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