Fernando
BANDINI

Fernando Bandini è nato nel 1931 a Vicenza, dove è scomparso nel 2013. La prima raccolta poetica, Pianeta dell’infanzia, appare nel 1958 all’interno del secondo volume dei Nuovi poeti curato da Ugo Fasolo e patrocinata da Neri Pozza. Nel 1962 sempre Neri Pozza lo fa esordire con la raccolta autonoma, In modo lampante. Le raccolte successive: Per partito preso (Neri Pozza, 1965), Memoria del futuro (Mondadori, 1969), La màntide e la città (Mondadori, 1979), Il ritorno della cometa (Garzanti, 1985), Santi di dicembre (Garzanti, 1994), Meridiano di Greenwich (Garzanti, 1998), Dietro i cancelli e altrove (Garzanti, 2007), Quattordici poesie (L’Obliquo, 2010). L’opera poetica è oggi raccolta in Tutte le poesie (a cura di Rodolfo Zucco, introduzione di Gian Luigi Beccaria, saggio biografico di Lorenzo Renzi, Mondadori, 2018). Ha ottenuto il Premio Lerici Pea alla carriera, il Librex Montale e il Viareggio alla carriera, accanto ai premi per la poesia latina nell’ambito della quale è stato il più importante poeta italiano in latino del secondo Novecento, come Pascoli per l’Ottocento. La sua terza lingua poetica, sempre considerata alla pari, è il dialetto. Ha tradotto, oltre che dal latino e dal greco e dal Vangelo, una scelta di Fleurs du mal di Baudelaire (1994), Le bateau ivre di Rimbaud (2007) e le poesie del trovatore provenzale Arnaut Daniel. Critico letterario e storico della letteratura, è stato docente di metrica e stilistica all’università di Padova, nonché presidente dell’Accademia Olimpica di Vicenza.

https://it.wikipedia.org/wiki/Fernando_Bandini

POESIE

da LA MANTIDE E LA CITTÀ

Amnesia
Giorno per giorno qualche nome si eclissa
dalla mia lingua e dalla mia memoria,
usuali parole come sedia bottiglia
Oh, trafelate corse per riprenderne
possesso! Annaspo naufrago
in un mondo che sempre più smarrisce
i suoi eoni, balbetto
come Mosè presso il roveto ardente.

E con nervoso tremito pronuncio
casa farfalla mela
per esorcizzare la buia notte
che si avanza a grandi passi;
ma poi casa precipita, farfalla
si polverizza in
porpora,
mela mi è tolta divorata dal verme
che abita il mio cervello.

Come mi muoverò, poeta senza
gli amati nomi succo delle cose,
tra i buchi d’un saccheggiato universo?

Blazer
In questo azzurro di settembre che si dilata
oltre il confine dei miei occhi verso
regioni dove non arriverò mai
ci sono chicchi d’uva che altre bocche
schiacceranno tra i denti ignorando
questo mio torrido angolo di sete.

In quell’altrove fiori d’ombra sbadigliano
alla sera di un’isola abitata
dai corpi adolescenti di Nausicae.
Non le vedrò dal mio raro trifoglio:
creste in fiore riarse dalla polvere
grucce al riposo di magre locuste.

Oltre il confine dei miei occhi il mondo
per qualche nuova sua intenzione scalpita
che io non so né mi restano giorni
per saperne di più. La notte penso
di là dalle mie tenebre una Circe
che si cala nel balsamo del mare.

da IL FILO DEL DISCORSO

Il filo del discorso
Da quadro a quadro il filo del discorso seguire
senza che troppa tensione lo spezzi
o becco ostile lo intacchi

da sinopia a sinopia
nel pomeriggio di pioggia che fa
alto lo scroscio

finché il cielo rispunta dalle nuvole
e ci prende per mano
verso un viola-melanzana-yaèl

con passeri sulle torri che rimproverano
gli indugi (vocine squillanti di collera)

di chi non vuol muoversi
di chi resta attaccato al soffitto
come un moscone grasso.

E dal viola al nero
il filo del discorso ostinati seguire
verso i fischi di un’alba melone-amira finché

oh, Har hatzofim!
ali ha ciascuno al cuore ed ali al piede.

Règia Parnassi
Fastidio certo un paesaggio dal nulla
col Règia Parnassi evocare
e non possedere il divino
istinto che dice con nuove parole
la luce di settembre.

Evocare dal nulla
il merlo poliglotta, inghiottire sospiri
per una moto che romba nel chiaro
e per l’uva, per l’uva
che non ha più il privilegio
di apollinei palati.

Ma disamo la morte malgrado
le sinistre sirene di film e poemi
la disamo e distacco
da un soffio la bolla più pura,
la più precaria e inutile libero
dalle parole.

E rataplan trovare da splendere
su tutto con bolle precarie
e vedendole alzarsi nel vento
non soprassedere
sapendo che a esse è negato
di durare oltre l’attimo, cingersi
di alone immortale.

Nessuna parola
Così abbagliante ormai
la distesa di neve che la retina non ce la fa.
Tutto è silenzio dopo la schianto dei rami,
nessuna parola aveva colto nel segno.

da FUTURIBILI

Quattro passi
Forse perché c’è qualche
parentela tra cicuta e mandorlo
(e lo conferma in ambedue l’amaro)
mi scheggia l’osso la pallottola
diretta ad altri. Forse
perché c’è qualche oscura
connivenza tra la neve e il fuoco,
nel refolo che passa
sento frusciare i piedi dei vampiri
lungo gli asfalti della città lontana.

Futuribili
Non ci sono serrature alle porte
dopo le bombe.
Si può entrare e uscire a piacimento
c’è un viavai di guerrieri.

Gettano biglie d’acciaio
contro i vetri superstiti,
saccheggiano,
fanno all’amore sul pavimento
delle cucine vuote.

Io vorrei ritrovare la regina Ginevra
ma sono troppo stanco.
Sulla strada per Gorre è stata violentata
da un birmano e da un greco.

da LAPIDI PER GLI UCCELLI

Zampette d’uccello
E tremo sempre perché sei piccola
e la neve qui intorno così vasta,
tu fuscello di brina
che a toccarlo si spezza.

E la neve non sembra nemmeno
sentire il tuo peso.

Ma a me
ti aggrappi forte, inventi sconosciute
tenerezze carnali
con una voce d’orca che vorrebbe
spaventare anche i grandi,
ardore smisurato con zampette d’uccello.

I
Il disegno del tempo non aveva previsto
i nuovi aspetti della voluttà
quando la primavera scintilla sui vetri
o in pioggia si scioglie dentro fogne e cortili.
Nel lampo di cristalli e allumini
il colore della terra si svela
per indizi malcerti, sebbene qualcosa
d’insolito urge il sangue. Ora le ombre
si fanno più distinte nel chiaro,
i rumori delle stanze si confondono
ai cori dei clacson
e i quartieri tremano al vento favonio, segnale
della dea che rinasce divum hominumque voluptas.
Torna il suo soffio vitale e s’impenna
su gasometri e torri
dentro l’azzurro così vasto e quieto.
Allora spiegami tu cosa scrivere
se saccheggiato è il mondo e il poeta una logora
istituzione fra tante. Bambini,
fuochi-fatui-bambini,
accesi un momento su una terra di fosfori
e sepolture gridano.

IX
E tutta questa gente che mi supera
senza voltarsi indietro, non badando agli ehilà
che grido alle sua spalle
(spalle piegate in avanti nello
sforzo di andare più in fretta più in fretta).

Non li ho veduti in viso e non mi hanno guardato.
Erano indifferenti agli incontri sporadici
ai saluti e agli allarmi
E vanno (me lo mormora la mia bile crepata)
al posto che anch’io so, che vorrei anch’io.
Con nuche altere e certezze nel passo
caracollante e superbo quali
nella mia vita non ho mai osato.

Ma io non vado verso, io mi sono fermato,
per questo qualcosa riesco a vedere.

XIV
Lui non credeva che
fossero morti tutti gli uccelli e i fiori
malgrado le notizie dei giornali
e il colore del cielo ormai caduto
in mille pezzi.

Lui per i monti invasi
dalle vespe in collera del nevischio
vagava e non aveva per quel mondo
tante volte pestato con trepida
felicità, non aveva da opporgli
che la noia del sangue.

E la neve dove le scarpe
d’amianto stampavano orme copriva
formicolanti città dalle mille
zampine…

E lei lontana così lontana
in quelle sue tenebre,
uscita ormai dagli alberi e dal vento,
si toccava la faccia
per ritrovarsi e volentieri avrebbe
piantato i denti candidi e minuti
in qualche gola vivente pur di
riavere ancora nelle vene il fiotto
del suo bel sangue
e i bioccoli di lana sulle siepi
e i sassi e i tordi…

e ora lui nella sua tuta
d’argento per strapparla
agl’inferi doveva rinunciare
ai mille piani immaginati,
guardare avanti e non curare il rombo
di sotterranee macchine.
Fendeva il fioco barlume che un vento
intermittente soffia dal profondo,
e l’ombra dell’amata lo superava
esile e lunga; finché
promemoria di un corpo, fantasma
di un fantasma svaniva
in una nuova densa oscurità.

Alle spalle sentiva il ronzio
del robot: lento
esecutore dei patti e custode
di quella morte che gliela faceva
remota, ancora la relegava
nell’indefinitezza.

Così pesantemente avanza
senza voltarsi namque hanc dederat legem
inferna dea,
risalendo da tonfi e da odore
di fissile polvere, rigido il collo
che al muscolo fiaccato
dal casco di cristallo era un acuto
dolore. E quando

si fu girato (ma perché?), al colmo
di un cieco impulso si era girato (per
vedere cosa?) – solo allora seppe.
Lei gli gridava: “Mi riportano sotto.
Addio. Ricordami. Non condannarmi se
tendendo a te le mani non più tua…”.

E allora seppe quanto
fosse quella galassia desolata.
E lei
che il sottosuolo chiuderebbe nel suo
impenetrabile grembo sottratta
alla luce, negata per sempre
al potere della parola

si allontanava in fretta
verso il rumore della città di Dite.

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