EMBLEMI ROMANZESCHI

EMBLEMI ROMANZESCHI

Come in altre occasioni, anche con Maschere e figure. Repertorio dei tipi letterari di Paolo Ruffilli (Il ramo e la foglia, Roma 2023) siamo di fronte a un saggismo che si distingue per essenzialità e misura, che chiarisce un contesto mai perso di vista e sorprende l’elemento di novità, sommergendolo, senza opprimerlo, delle emozioni che attraversa. Giunti alla fine dei tempi, al susseguirsi di incoerenti frammentazioni e disarticolazioni, Ruffilli intravede la necessità di una testualità forte che arrivi alla cosa, fatta di valutazioni ingenerate da una intelligenza critica strutturante e non relativista, alla cui origine c’è un esercizio non compiaciuto e non concepito come esercizio di stile o veicolo di associazioni fantastiche. Ed è proprio questa consapevolezza metodologica della distanza dal testo ad interdire, ad esempio, la postura dell’artista aggiunto all’artista – creatore di secondo grado di un testo secondo – che trae ispirazione dall’opera d’arte altrui, quell’artifex additus artifici che rivendica il proprio soggettivismo attraverso il gusto della sensazione analogica, in una sorta di controcanto, rispetto al testo di partenza, fatto di polivalenze, di echi e di risonanze. Gli esteti dell’interpretazione e i loro continuatori (si veda in proposito M. Veronesi, Il critico come artista dall’estetismo agli ermetici, 2006) rifiutano il termine «critica», la classica «arte del giudicare» (ma anche distinguere, scegliere) deputata a postulare un giudizio e una valutazione razionali, e introducono quello meno vincolante di «contemplazione». Ruffilli destituisce questa complementarietà tra artista e critico circoscrivendo l’invasione del contemplatore dedito a colmare della propria individualità rimeditata quegli iati tra la volontà di dire e la difficoltà di nominare l’inexprimable. La vera dimensione dell’opera è l’opera stessa, per quanto messaggio ambiguo e indeterminato, e talora alle soglie del non senso. E l’atto ermeneutico, non più curvato a una dispersione che dell’interpretazione non oltrepassi il grado propedeutico o renda l’approssimazione infinita, è in Ruffilli un momento in cui – prendendo le distanze anche dai presupposti di un punto dell’estetica degli anni Sessanta del secolo scorso, quello della lettura come integrazione/esecuzione – attività e ricettività sono chiaramente distinguibili. L’opera non necessita di integrazioni, nessuno, oltre l’autore, può presiedere alla sua realizzazione. Ovviamente l’interprete dovrà interferire con il personaggio della narrazione nel contestualizzarlo nel suo tempo e nelle idee generali della società e della storia, e nel rilevare gli effetti dei condizionamenti ideologici e letterari su di lui. Ci ricorda Ruffilli che già Aristotele, nella Poetica, affrontava la questione della priorità, in una narrazione, della trama o del personaggio. Diceva Chatman che Aristotele prima, e i formalisti e alcuni strutturalisti poi, hanno ridotto il personaggio a una funzione dell’intreccio, ma sta di fatto, Ruffilli sostiene – nella sua più o meno indiretta riserva verso l’accentuazione del metodo formale o strutturale –, che «senza la pregnanza dei personaggi nella loro differenziazione il plot non decolla e non procede con effetto trainante». Inconcepibile una storia come ambito di trama senza personaggio, «non vi possono essere eventi senza esistenti», secondo Chatman. Ora, piuttosto che le opere letterarie tanto Bufalino che Ruffilli assumono quelle parti – i personaggi, appunto – che ce le fanno ricordare. Come, e diversamente, dal Dizionario dei personaggi di romanzo di Bufalino, Maschere e figure è un saggio che contiene istruzioni per l’uso della letteratura. È una guida alla lettura, dice Ruffilli, o alla rilettura attraverso personaggi modellizzabili, tipi esemplari, talvolta da giustificare l’antonomasia. Alla rilettura: visti i tratti non sempre marginali che puntualmente ci sfuggono, o il quasi sorvolare, talvolta, figure secondarie ma emblematiche – quanti fattori contingenti condizionano il lettore e il suo apprezzamento dell’opera? Bisognerebbe chiederlo a Proust… –  Nel suo apprezzamento il lettore potrà con questa guida alla lettura avvalersi di alcuni vantaggi: acquisire la facoltà di inquadrare il personaggio in una gradazione particolare della sua maschera, che può essere molteplice (difatti, per il modo costantemente mutevole, caleidoscopico, di mostrarsi, qualche figura torna sotto un altro lemma in un altro ambito psicologico e sentimentale). Con l’aiuto della psicoanalisi (accettata o contestata) e delle coeve ideologie (la morale cristiana in particolare, che costituisce una giustificazione storica o, nelle vesti di ideologia della conservazione, la radice di un comportamento distorto), focalizzare le diverse accezioni del nome che designa il carattere in questione e il suo corso psicologico, non accomunando figure all’apparenza omologhe ma immesse in dinamiche psichiche differenti. Scoprire sottili caratteristiche che ineriscono al profondo dell’umano, sia declinato nel suo momento storico, sia intemporali. E risalire agli archetipi fondamentali, per mostrare che, in fondo, mutati i tempi e le cose, negli umani permane una sostanziale affinità, e che la trasfigurazione letteraria non si preoccupa di censurare atteggiamenti e sentimenti inconfessabili. Dal momento che le opere letterarie traggono ispirazione dalla realtà e dalle vicende degli umani, dice Ruffilli, nel tempo hanno dato luogo a «una galleria di ‘tipi’, modelli esemplari, archetipi, ai quali sono riconducibili, nelle loro molteplici sfumature, tutti i personaggi degli infiniti racconti venuti alla luce del mondo». I quali trattengono caratteristiche degli archetipi letterari, poi modelli tipizzati, evoluzione e variazione della maschera teatrale. «Figura» deriva dal latino fingere, plasmare. La letteratura si fonda sulla versatilità del linguaggio, che, sulla scorta di Valéry, quindi oltre il vago e l’ordinario, ha valore finalistico e non comunicativo (in merito ai linguaggi delle opere letterarie rimando a C. Barbero, Quel brivido nella schiena, 2023). Agli albori della letteratura, Ruffilli osserva, vigeva la tendenza integralista di tenere rigorosamente distinti, nel singolo personaggio, i termini in contrasto contestuali in un carattere. Questa volontà integralista si attenua o viene meno con i ritratti antieroici della letteratura moderna, dove il personaggio, non più figura d’eccezione, è tratteggiato senza enfasi in quanto «ha ricomposto in sé la duplicità non nella contrapposizione delle due facce, ma nella contiguità, e la mescolanza inevitabilmente stinge i colori e attenua i contorni». E in questo conflitto di tensioni contrarie che il modello del protagonista della letteratura moderna, Ruffilli scrive, «risulta spesso ridotto alla condizione abulica, all’inerzia, all’indifferenza». Alla noia come incapacità di affrancarsi da una ormai persistente condizione di uniformità e di monotonia, quindi votato all’introversione patologica, all’angoscia e al disgusto, idealista inetto, appunto, a realizzare i propri ideali. Ed è talora proprio questa la genealogia del tipo del «pigro», che prende le sfumature di «superfluo, accidioso, ignavo, abulico, irresoluto, inetto, nihilista, indifferente, estraneo». Ogni carattere qui si distingue per tonalità di tratti psicologici. Questi i lemmi che si succedono in Maschere e figure: il pigro, il libertino, l’ipocrita, l’ingenuo, il bello, la donna fatale, il malvagio, il vanitoso, l’androgino. Conclude l’opera un dizionario dei tipi, introdotti dal significato di «maschera». Quella maschera comica o tragica che dai tempi del teatro classico, fino alla fissazione dei tipi nella commedia dell’arte, indicava allo spettatore le caratterizzazioni essenziali dei personaggi («persona» in latino è maschera di scena), la tipizzazione di una condizione sentimentale. Già personaggio fisso del teatro, la maschera è progredita da oggetto materiale a una sorta di psicologia, espressa in codice, di tratti caratteriali. L’analisi obiettiva di Ruffilli mostra quindi che le figure romanzesche ci dicono molte cose: sui caratteri che vengono da lontanissimo e non sono esclusivi della modernità, sul complesso delle idee che si trovano fermate al loro posto e al loro tempo e sull’intrinseca invarianza della condizione umana pur nella sua infinita diversità.

Elisabetta Brizio

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