LE COSE DEL MONDO DI RUFFILLI
Paolo Ruffilli con la sua ultima raccolta “Le cose del mondo” 1978- 2019 (Mondadori) ci consegna un’opera caratterizzata da forte compattezza, prova di una fedeltà a se stesso – alla propria idea di poesia – mantenuta inalterata per oltre quarant’anni.
“Romanzo di formazione autoironico“ così Giuseppe Pontiggia definì la raccolta “Piccola Colazione” del 1987: tale definizione si attaglia perfettamente a “Le cose del mondo”. Nella nuova raccolta i ricordi dell’infanzia, i rapporti con la figlia adolescente, le cose e gli oggetti evocati, sono resi con una grazia del dire, una leggerezza delle espressioni e dell’immagini che scaturiscono da versi rigorosamente brevi e che tendono all’oggettivazione delle emozioni e delle vibrazioni
Sono poesie – quelle contenute in “Le cose del mondo” – nelle quali il pensiero sembra ovunque e di continuo ripullulare, diffuso come la vita, in innumerevole parvenze trascorrenti che si rimandano da un testo all’altro attraverso un susseguirsi di riprese ed echi.
“Le cose del mondo” è un’opera concepita come un continuum, come un ampio poema aperto che scorre proponendo nel suo trasformarsi una serie di presenze varie e movimenti di oscurità e trasparenti accensioni.
Mi piace ricordare le parole di Stefano Giovanardi che a proposito della poesia di Ruffilli scrisse: “L’interna e ossessiva coerenza, che Giovanni Raboni riscontra nel lavoro poetico di Ruffilli, è la coerenza di un sistema che accetta la propria dissoluzione e che anzi ne fa materia privilegiata di espressione: e nel far questo scopre d’improvviso che è di nuovo possibile dire tutto”.
L’inizio del viaggio della vita viene espresso egregiamente nell’esergo del capitolo iniziale di Cose del mondo: Che stato di piacere quello in cui da fermi, si segue con lo sguardo qualcuno in movimento più lontano (p.11), a cui il Ruffilli ha voluto dare un titolo significativo: Nell’atto di partire. L’esistenza è simile a un viaggio: Nel porsi in viaggio, l’uomo avverte un impulso / di deriva andante dentro il vuoto … come spinta irriflessiva e irregolare, curva sghemba della deiezione, / lo scarto imprecisato del destino (p. 13), tra una posizione solare che gli fa immaginare possibilità feconde e rasserenanti, e una specie di collocazione a sghimbescio che unisce due piani non complanari, le indefinite scorie del destino. Poi il percorso, dissimile per ciascuno di noi, il cui requisito basilare è il moto. Noi, esseri razionali, abbiamo scandito il tempo in modo lineare e privo di incurvature a scanso dei “rischi” dell’incognito. Ma è l’andare avanti che suscita la speranza, alimento di future conquiste in contrapposizione al vuoto che ci circonda: È il movimento a darci in dote la speranza / … / rendendo le (cose) vicine subito vacanti, in opposizione a quelle ignote e distanti (p.14). Partiti che siamo, una paura ci prende: saremo in grado di ritornare? Superata la paura riprendi il cammino: il movimento come parte della vita. Non puoi fermarti anche se lo volessi. L’ignoto ti turba, ti fa paura. Ma riprendi il cammino sempre col proposito di tornare. È questo che dà certezza e conforta. La vita ti può condurre su strade sconosciute, dove ci si perde, ma qualcosa ti riporta al punto di partenza. … bisogna intanto perdersi / per potersi davvero ritrovare (p.16). Walt Whitman in modo non esplicito nel suo famoso Canto di me stesso (Song of Myself), il poemetto che apre la raccolta poetica Foglie d’erba (Leaves of Grass) (questo fu il titolo che l’autore diede dalla settima edizione in poi), esprime l’idea che l’uomo perde se stesso nel flusso della vita e poi si ritrova in ogni atomo che gli appartiene, e che appartiene anche agli altri… La raccolta fu pubblicata dapprima in forma anonima, a sue spese. Vi lavorò per tutta la vita: da dodici poesie nella prima edizione, aggiungendo altre poesie, arrivò a trecento, nella nona edizione. I componimenti tra cui la famosa O Captain, My Captain dedicata a Lincoln dopo essere stato assassinato, furono pubblicati nella raccolta Sequel to Dram-Taps preceduta dalla raccolta Drum-Taps (Colpi di tamburo) e poi furono inclusi in Foglie d’erba. Disse di lui un suo contemporaneo, Henry David Thoreau: Con il suo vigore e con il grande respiro dei suoi versi, mi mette in uno stato mentale di libertà, pronto a vedere meraviglie; mi porta per così dire, in cima a una collina o al centro di una piana; mi scuote e poi mi getta addosso migliaia di mattoni. (Lettera di H. D. Thoreau inviata a Harrison Blake il 19 novembre 1856). Sono poeti sulla stessa lunghezza d’onda che hanno aperto la strada a considerazioni concettuali espresse esplicitamente da Thoreau, dopo aver letto Canto di me stesso. Il Ruffilli rende evidente con i suoi versi il senso del ritrovarsi dopo essersi perduti: è la strutturazione della vita che gli fa capire quale strada intraprendere per capirne il senso, quale percorso bisogna compiere per spiegarne la ragione. È la ricerca dunque il mezzo d’investigazione, il perdersi in congetture che possano aprire la porta della conoscenza, e il potersi davvero ritrovare è il percorso verso la verità, pur non essendo ancora arrivato alla meta. Ecco la metafora del treno che riparte, lo sporgersi dal finestrino / fino ad avere il senso pieno / … /del viaggio già avviato (p.17). Ma quante incertezze! Quanta paura in un dormiveglia che non riesci a capire se sia un sogno o la realtà che ti ha fatto scendere in un posto non voluto (p.23), una stazione che non è la tua meta! Dove sono arrivato? C’è ciò che cerco? Queste le domande accorate del poeta. Paura che non si riesca a raggiungere la stazione, che più si va e meno si trova / e non si arriva da nessuna parte (p. 24). Ad un certo punto il poeta ritrova nella consapevolezza di una realtà ostica, piena di ostacoli, di difficoltà a risolvere i quesiti che l’esistenza pone: L’acqua che scorre, la sabbia tra le mani (p. 27). È consapevole dell’impossibilità di risolvere il mistero della vita invischiato com’è nei labirinti terreni. Nonostante che il suo pessimismo lo freni, l’uomo cerca sempre una spiegazione. L’uomo è una figura smarrita (p.28) spinta ad andare sempre avanti, metro su metro (p. 28), sprecandosi in questo tentativo che lo strema, ma non può farne a meno in quanto segue il suo istinto. E intanto la morte si approssima mutando in gara infinita / – intravista e perduta – la vita (p. 28). Ma l’andare avanti, il ricercare, dà un gran sollievo (p. 29). Si è come in un vagone di treno, un angusto spazio / di prigione (p. 29). E nella nostra casa, che è anche il nostro rifugio, in quel metaforico vagone di treno, in quella cadenza di vita, i momenti di felicità ci portano a cercare un abbraccio consolatore. Così abbracciati, lasciando le parti / sussultare a ogni scossone (p. 29). Il nostro corpo reclama ciò che vuole. Ora il poeta percepisce, avvolto nel buio della notte, mentre il sonno lo sopraffà, lo scroscio della pioggia e le raffiche di vento. Tenta di sfuggire al cupo conto dei morti che / la vita ci riserva indifferente / spesso e volentieri senza riposo (p. 32). Non c’è scampo al destino crudele che la vita ci riserva! Riprendere il viaggio è l’illusoria soluzione ai problemi senza via d’uscita. Nell’ora di sbandati lasciati senza meta e / senza orari dal moto inerte della vita (p. 33). Il poeta avverte l’inutilità di questo vivere, dispersi dentro il vuoto. Un’illusione che la vita valga la pena / comunque di essere vissuta (p.35). Un’illusione che i momenti più felici, per quanto possa fare il ricordo, facciano rivivere il piacere (p. 36), scemato subito dopo averlo vissuto. E da qui le molte lacrime invisibili / nascoste agli altri (p.36). Il dolore che ti morde dentro, ma che non palesi. Un’amara ipocrisia abbozzata per gente a cui non importa nulla dei tuoi tormenti. Traspare dai versi di Ruffilli la vera realtà che impregna l’esistenza dell’uomo e degli esseri viventi che avvertono il peso ossessivo dell’inutilità. A questo punto vorrei fare una postilla: la vera realtà degli esseri viventi è la volontà di vivere, che genera il desiderio, la lotta e la sofferenza. Questa visione venne espressa dal pessimismo filosofico che ha avuto come principali esponenti Arthur Shopenhauer e Eduard von Hartmann nel XIX secolo. Secondo questa corrente filosofica l’infelicità e l’irrazionalità sono i veri dominatori della vita. È un pessimismo metafisico che riguarda tutto l’universo. In alcuni filosofi questo pessimismo può portare al giudizio di prevalenza del male sul bene e alla rinuncia della speranza, sebbene alcuni propongono il nichilismo o l’ascesi come mezzo di salvezza. Altri ancora considerano il pessimismo filosofico come negazione della vita. Partito senza mete, solo per partire / di fronte all’infinito … (p. 39). Versi di un’intensa qualità lirica e profonda filosofia. Come può l’uomo risolvere il problema della sua esistenza senza una visione tangibile della realtà del cosmo, senza una pur minima concezione della sua origine, ma col solo mezzo di una ragione prigioniera della sua limitata capacità? La limitazione della ragione umana nel comprendere la realtà cosmica che ci circonda potrebbe essere dovuta al fatto che non siamo ancora in grado di spiegare l’origine dell’universo e del Tutto. L’origine dell’universo e del Tutto rimane ancora un mistero e la nostra ragione potrebbe non essere ancora sufficientemente sviluppata per comprendere appieno questi misteri. Le teorie religiose come quella cristiana potrebbero fornire una risposta alla domanda sull’origine dell’universo e del Tutto, ma queste risposte sarebbero basate sulla fede e sulla credenza piuttosto che sulla scienza e sulla ragione. La scienza cerca di spiegare l’universo attraverso l’osservazione e l’analisi dei dati, mentre la religione cerca di spiegare l’universo attraverso la fede e la rivelazione divina. In ogni caso, entrambe le prospettive possono coesistere e offrire una comprensione più completa dell’universo e della nostra esistenza. Vorrei aggiungere ciò che Thomas Stearns Eliot disse a proposito del viaggio: È il viaggio, non la meta, ciò che conta. In verità questa frase non si trova in nessuna delle sue opere. Si tratta di una parafrasi di un verso del suo poema Quattro quadretti: ‘Non smettere mai di esplorare / e alla fine di tutto il nostro andare / ritorneremo al punto di partenza / per conoscerlo per la prima volta.’ Quindi il viaggio è un modo per scoprire se stessi e il senso della vita, e che la meta sia solo un pretesto per partire. La partenza, il percorso, l’arrivo come ciclo dinamico della vita. Pertanto, il viaggio diventa simbolo dell’inquietudine dell’uomo, del suo desiderio di sapere, della sua volontà di sfidare l’ignoto e superare le sue paure. Anche i successivi versi descrivono la condizione dell’uomo che nel suo andando e fino al suo finire / non dovrà arrivare da nessuna parte / con nessuno che mi cerchi o aspetti / a un terminal di volo, / dentro una stazione / … / … che desolazione di fronte alla visione / del vuoto secco in cui ti getti. (p. 39) Illuminanti i seguenti versi come epilogo del suo peregrinare in questo luogo, non luogo: Ma quello che si cerca ad ogni costo / -chissà mai perché – poi non ci appare: arretra e di continuo intanto si cancella. (p. 40) Ma la mente umana lascia sempre aperto uno spiraglio di speranza. Il poeta si abbandona a delle ipotesi: Che il mondo, allora, sta nascosto / sotto la sua ombra e il suo riflesso? / … / O magari – è l’ipotesi più bella – / che proprio non ci sia? (p.40) In questi ultimi versi c’è l’idea più accreditata dalla comunità scientifica: il Tutto si trasforma e le eventuali civiltà intelligenti potrebbero essere cancellate dal tempo cosmico. Conclusione del tragitto: e mi ritrovo solo, di nuovo / in posti alieni, straniero tra la gente … (p.41) mi ricorda i due stupendi versi di Salvatore Quasimodo Ognuno sta solo sul cuore della terra, / trafitto da un raggio di sole … Ma c’è un ‘ma’! Con il terzo verso Quasimodo conclude: ed è subito sera, cioè la fine della vita, la morte, imprevista e improvvisa. Ruffilli lascia spazio alla speranza: Eppure, … / … / riportato a galla, rimesso in piedi / con sorpresa e lì contro ogni attesa / che intanto avevo ormai sepolta (p. 41). Qui sta la potenza poetica di un uomo, di un’artista, aggrappato superbamente alla vita, che se pur vuota, insignificante, assurda, senza senso, si sente resuscitato e vivo un’altra volta. (p. 41) CONTINUA
Passiamo ora alla seconda parte, Morale della favola: il vissuto di ciascuno di noi, sballottati in un percorso di vita che alla fin fine non porta da nessuna parte. Vedi Anticamere: Quanti ingressi, vestiboli, poltrone, / sale d’aspetto con altri, cauti / e scaltri, passati avanti e noi restati lì / buoni e perplessi ad aspettare / il turno nell’anticamera del mondo. (p. 63) Oppure Successo: Ma poi finisce che non è mai finita / e c’è ancora e sempre un’altra cima / da conquistare su per la salita (p. 65). La continua lotta per emergere e conquistare il successo, illusorio sì, ma che dà la soddisfazione e l’ambizione vuota (p. 65) di essere tra i primi. E poi, dopo aver raggiunto lo scopo agognato, non è ancora finita; c’è sempre pronto un altro scopo da raggiungere. Non s’avvilisce il poeta, anche se l’illusoria conquista non viene compiuta da lui, ma da altri. In Orrore mostra tutta la sua forza, anzi la sua rabbia, che ci sia gente precipitata così in basso da ammazzarsi nell’assurda idea di coinvolgere chi lo ha condotto a quella scellerata scelta. Dice infatti Chi si toglie la vita, da vigliacco e / stolto camicaze, non per salvarla agli altri / ma per farli coinvolti nella fede / della sua stessa tragica rovina / è il segno puro e intero dell’orrore (p.66). Perché li definisce vigliacchi e stolti? Perché, persi e disperati? (p. 66) Perché questa gente, che ha condannato peggio che a morte sé stessa, non ha il senso dell’amore, ma è rosa dall’odio. Infatti, dice Ruffilli a conclusione della sua composizione poetica: perché ciò che procede dall’amore / non è mai carneficina (p. 66). Se non uccide se stesso per non essere riuscito a sopraffare gli altri, l’egoismo prende altre strade che portano all’avarizia e all’ingordigia senza fame o sete (p. 67), solo per il piacere di competere con gli altri in preda al gusto di tenere stretto, / comunque sia, quello che tocchi (p. 66). E per avere sempre di più si è costretti a non alienarsi la ricchezza che si è accumulata. E per farlo si diventa sempre più corrotti. In L’abbondanza si legge: Ma … poi è un fatto che niente mai / al pari dell’avidità rende corrotti (p. 67). Ciò è un’alternativa, sempre negativa, al suicidio. In un’altra poesia, L’evidente, leggiamo che tutto ciò che ti abbaglia non fa vedere la parte più importante (p. 71). Dice infatti il poeta che il resto, sia pur grande / conta poco o niente. (p. 71) Perché la conquista, il progresso della mente umana, ciò che fa grande la vita e ti dà una spinta in avanti verso ciò che conta, sta nel segreto e nel nascosto (p. 71). La ricerca come prima sollecitazione, e poi la scoperta che dà la certezza e la soddisfazione della conquista. Una volta scoperto questo segreto, finalmente si apre la mente e sarà stato fatto un passo in avanti, anche se si è coscienti dell’impossibilità di poter risolvere il mistero del perché della nostra esistenza. La terza parte è La notte bianca dove Paolo Ruffilli in Natura umana sintetizza la qualità peculiare dell’essere umano: il suo bisogno ineluttabile di ricercare ciò che gli sembra sia stato di sua proprietà e gli è stato tolto illecitamente. Una parte di se stesso che gli apparteneva, adesso perduta, e a cui sente di avere diritto, legittimamente, per sua natura. … riprendere possesso / di un qualcosa che le sia stato tolto, (alla natura umana) / … / parte nobile della sua essenza stessa (p. 82). In una composizione successiva intitolata In uso di litote il poeta mostra l’incertezza in cui vive l’uomo, il suo tentare di trovare l’equilibrio tra il fare e il non fare, l’essere e il non essere, il godere e il patire, un equilibrio precario che rende l’uomo incerto e insicuro, direi timido di compiere un’azione sbagliata, per cui preferisce l’esitazione, il dubbio tra il compiere e il non compiere quell’azione. Un assoluto comportamento ignavo, un modo di fare capzioso. Non offendendo, non essere offeso / e, non godendo nemmeno patire / … un sofisma sottile (p. 86). Questo è l’essere umano, questo è il suo comportamento vago, che lo porta a condurre una vita anodina e insignificante. E nella seguente composizione Chiusi nel sogno, è descritta la conseguenza di questo comportamento amorfo. Proprio come diceva Pedro Calderon de la Barca nel dramma La vida es sueño: Che è mai la vita? Una frenesia. Che è mai la vita? Un’illusione, un’ombra, una finzione … È il più grande dei beni e poi ben poca cosa, perché tutta la vita è sogno, e gli stessi sogni son sogni! (Sigismondo, alla fine del secondo atto). Ruffilli, nel secondo e terzo verso, mette in evidenza la caratteristica proprio dell’essere nati materia, e che l’intelletto ha mutato in esseri distaccati e alzati in volo, / ma ricaduti in ansia e per paura. / … / Chiusi nel sogno intatto / di uscirne, chissà come, immuni. (p. 87) L’idea del vano girovagare della mente costituisce il fulcro del pensiero dominante del poeta anche in L’oggetto del pensiero che sono costretto per totale empatia ed esigenza spirituale a riportare, qui, integralmente: E’ un’astrazione e non un fatto, / l’oggetto di un pensiero, / figura, idea, sogno o concetto / più che un reale sentimento, / puro stato andante del desiderato / cercato e inseguito dalla mente / eppure insoddisfatto, perduto / prima di averlo conquistato / e, dunque, mai goduto / (sempre sul punto di essere … ) / creduto e delirato, un atto / del volere: il senso del piacere. (p. 88) Bella e terribile l’immagine che Paolo Ruffilli dà del tempo: lo paragona a un fiume. Quando nasce, il tempo di ciascuno di noi è un tempo che scorre lento, placido a tratti, quando è ancora fanciullo. Poi da giovane corre veloce e / d’impeto soltanto trabocca e spande. (p. 91) Lascia la pianura e scorre ancora, ripiglia la sua forza, / e intorbidando l’acqua chiara è pronto a rompere in furia gli argini / a svellere le sponde, a strabordare (p. 91) e travolge e sradica tutto, pronto a distruggere le aspirazioni umane sognate per tutta la vita. La brusca disillusione, e il mesto ripensare a tutto quello che lo aveva fatto sognare. Ecco ricomparire l’immagine di ciò che il poeta credeva conservata come cosa preziosa nella cassaforte della vita (in Universo) (p. 92)! La sua mente, che grazie ai suoi occhi, gli aveva fatto vedere e immaginare l’oltre, L’infinito esplodere continuo / l’espansione e il giro palpitante, / la legge che presiede a scambi / di energia, un mare ribollente / di luce e di calore. (p. 92) E poi l’immagine dell’ignoto, sempre in Universo, oggetto del nostro desiderio, aspirazione senza risposta. Una possibile realtà solo sognata, l’inconoscibile e remoto, un esistere dall’altra parte. Ignota realtà o sogno? E il poeta, sconsolato, aggiunge: ma l’universo ha solidi confini, e termina con la straordinaria immagine di un tunnel in salita circolare, / avvitando trascende e si contiene / a replica dell’elica infinita, / codice e radice, cassaforte della vita. Traspare un cupo pessimismo per come succedono le cose. Una vita che si accende, e più o meno, in men che non si dica, si spegne, come descritto nell’incipit del componimento successivo La gioia e il lutto, un miscuglio di gioia e lutto, di un percorso comunque sconosciuto che ha come ultima tappa il buio. E come detto, subito dopo in L’intanto, ciò che sorge come atto fecondo, creduto per durare, da vivo / poi diventa stato inamovibile, / cessato. (p. 94) Ma al di là di questo vagabondare nel nulla, lo sguardo umano (p.100) non vuole abbandonare le cose a cui è abituato, anche quando sopravviene la morte. La mente gli fa vedere ciò che gli occhi non possono, e gli fa sperare in un mondo nuovo dove poter continuare ad esistere. E si leva e sale, / … / niente lo ferma o chiude col suo schermo / né il buio presto riesce a farlo spento, / resiste e riesce a vedere ciò che da quel profondo oscuro / emerge, / … / l’altrove, il cielo … il trascendente. (p. 100) Ed è proprio nella penultima composizione della raccolta, Verso il cielo, che il poeta chiarisce la sua idea di trascendenza: … è il pensiero che ti fa estraneo, non più coi piedi a terra, ma concernente una sfera raggiungibile attraverso un invisibile sentiero che ti trascina di peso verso l’alto / e da quel salto spiccato verso il cielo / che subito aspirandoti ti afferra … (p. 101) E in Tardi, a conclusione di questa raccolta, il Ruffilli sostiene una teoria seguita dalla maggior parte dei ‘pensatori’. Inizia col bellissimo e realistico verso Quanti deserti ho attraversato … E subito dopo afferma la sua forza di non cedimento a quello spietato destino: Mai, per un attimo neppure, (un vero e proprio rafforzativo della sua invitta decisione) / arreso all’evidenza della mia ferita. Continua descrivendo il suo fragile percorso: Io, partito debole e incerto sui bersagli / senza vera meta e senza una ragione, ma subito dopo mostrando la sua forza: capace invece contro la mia attesa / di trarre l’energia dal vuoto e dal dolore. (p.102) Conclude con una quartina che esalta la forza del pensiero e travalica la debolezza umana proiettandosi in un ignoto sovrumano avvenire a cui vuole credere, oltrepassando il buio senza previsione e senza meta / diventato con sorpresa (strana, mi dico, / la mia sorte) via via più forte per la vita / avanzando e avvicinandomi alla morte. Che dire oltre quello che è stato detto? L’intera vicenda umana descritta in tutta la sua opera, poetica e filosofica. Ma Ruffilli ha voluto aggiungere anche Le cose del mondo, dove vengono descritte tutte le Cose che gli sono appartenute. Quando tu non ci sei, chissà dove capitato, e la mente non è in grado di comprendere, restano le cose solide e impassibili nelle loro pose …anche se il tempo le consuma senza strazio … (p. 105) Ecco che ogni cosa appartenuta a chi non è più, racconta la sua storia: l’anello, l’armadio, l’astuccio, la bambola, la barca, il bicchiere, le calze, il cappello, la cartella, il diario, la gomma, la lavagna, il letto, il libro, la matita, gli occhiali, il palo, il pettine, la porta, la radio, la scarpa, la sedia, lo specchio, il tacco, il vocabolario.
Ma cosa fanno le cose / … / in attesa di essere ancora sollevate / … / Aspettano giorni inchiodati nel silenzio / che torni ad animarle un po’ la nostra presa? (p. 137), dice Ruffilli, in corsivo, a conclusione di questa parte che descrive le cose che abbiamo posseduto. E molte cose poi scompaiono presi da questo o quell’altro: vendute? Regalate? Altre rimangono ai sopravvissuti, come ricordo: figli, nipoti, pronipoti, o simpatizzanti. E passa il tempo anche degli altri, il tempo che distruggerà anche il ricordo di noi e delle cose! Per concludere Ruffilli non dimentica anche di ricordarci come è fatto fisicamente l’essere umano nei suoi due generi: maschile e femminile, due persone di genere diverso. (Introduzione, in corsivo, della parte del libro Atlante anatomico.) Egli elenca e descrive le parti del corpo, tracce che si reiterano nell’Essere, finché continuerà ad esistere. E siamo alla fine, con Lingua di fuoco e la sua scia, Interrogativi. La Parola, il Verbo, come Lingua di fuoco, come Rovo ardente sul Monte, come invito a capire questa nostra esistenza, come spiegazione di ciò che aspetta ancora nell’assenza. / … / ancora lì senza la forma né i contorni / … / e si fa vivo da incolore che era. (Nella parte introduttiva, in corsivo) (p. 173) In Si stacca la parola il poeta ravvisa qualcosa di più concreto, l’ombra si rende corporea, reale, e perde la prerogativa del sogno: si stacca la parola / dal groviglio e dà forma al fantasma / figlio del sogno che si sveglia. (p.174) L’ultima composizione, La sete, è un inno alla vita che rinasce dopo che nella precedente La voce del silenzio, dalla solidità del niente, dando nome a ciò che è assente / riplasma in lettere l’essenza / evocata. Così la vita riacquista vigore e si spegne la sete di risposta al buio del mistero. (p.188) Ma gli interrogativi (p. 189) rimangono. Qual è la risposta al quesito paradossale posto in L’urlo del silenzio: la vita come il sogno / … / è impastata e fatta? Oppure, in Anima del mondo: Per quale mai spiraglio / … / da quale bordo mai / dell’infinito / … / riconquistare … / … / l’archetipo matrice / l’anima del mondo? (p. 190) O in La traccia: Da dove nasce, / prima ancora / di ritrovarci nati, / tutto quello che / ¬- senza saperlo – / siamo già stati? (p.195) Tanti quesiti, ma nessuna risposta. Però una risposta ce la dà, Paolo Ruffilli, nel corsivo finale, quando dice: la ragione che si fa linguaggio / volto a spiegare perfino il sentimento, / musica interiore che su da sotto sale / … / parla nel suo scontrarsi per domarla / con la resistenza delle cose. (p. 198)
Pietro Nigro
Un viaggio labirintico come cardine dell’esperire e del pensare “le cose del mondo”, quel moto come senso della vita che certifica la sua esistenza in un ritrovarsi attraverso lo smarrimento: tema più che mai labirintico. Il disagio di non aderire a nessun punto del percorso, una vera ontologia dell’altrove, trama questo libro di fughe lente, di nostoi come approdi d’anima, medicamenti di insopprimibili ansie. Partire per una “condanna / senza mai riposo”, partire senza avanzare. Il treno e le stazioni come ventri di Giona di “una vita chiusa anche all’aperto”, per medicare il distacco come statuto inevitabile di una identità che trova nella azione la sua sola possibile evoluzione, per ripercorrere la vita “nei meandri profani” del passato. Come se il senso ultimo fosse sempre in movimento, da inseguire nella inquietudine cinetica del poeta, per aspirare a quella folgorazione dell’attimo, in una gara infinita “ -intravista e perduta – , che si distingua nel “moto inerte della vita”, che esorcizzi la solitudine profonda “straniero tra le genti” per essere ancora “resuscitato e vivo un’altra volta”. L’incontro stesso è un esorcismo del vuoto e muove il mondo, così come “la molla della vita/la ricerca e la scoperta, la conquista” che tuttavia sono nascoste e conducono alla salvezza attraverso un invisibile cui essere desti e attenti, attraverso le agnizioni e il saper capire. La tensione segreta è sporgersi oltre l “orlo nero dell’assenza”, oltre “l’imbuto /del cieco vaso” fissando il “punto fermo” di luce, “puntando in alto” verso “la pura scaturigine”, con “quel salto spiccato verso il cielo”. Certo il tema montaliano dell’eternità d’istante” balugina anche in questo libro, anche se come combattuto e ossimoricamente quasi contestato, per rivelarsi in realtà la suprema possibilità di una “verità che si apre e si richiude sull’ignoto”. L’ironia arguta e giocosa di molti versi, volutamente rimati, sembra stemperare la pena sottesa in una saggia pietas delle Cose del mondo ma non spegne l’Ascesa ardente”. La fiamma sotterranea di questa metafisica segreta, indirizzata a un cielo sotterraneamente inseguito, attraversa anche molteplici ricognizioni organiche e anatomiche: una fisionomia della coscienza espressa dalle parti del corpo, cui la nominazione poetica porta alla ribalta in una nominazione che è restituzione di senso, perché “le parole aprono la carne” e la parola “il magico reticolo del nome / come contenuto del suo contenitore”. Ecco che la poiesis invera il suo compito ontologico, dare sostanza alle parvenze, “far riemergere nel loro pieno/ nei vividi colori del pensiero/ tutti quanti gli esseri viventi”. Parola organica e trascendente al contempo”, contraddittoria quanto vitale, parole “assetate sempre di libertà e di arbitrio”, “simbolo fluttuante”. Un dire che svela la sua natura di “chiamata” che “riplasma in lettere l’essenza”, “riconsegnando a un tratto …. contorni/ e consistenza /all’essere esistente” e, recuperando “l’anima del mondo”, risana la ferita originaria: “ricomporre il taglio”. Parola poetica, quella di Ruffilli, come unico demiurgo per l’uomo, “luce che fora il buio” ma rispetta la “penombra amata”, creazione che unica è in grado di restituire “Vita vivente/mobile e vagante/ distesa nel mistero”.
Gabriella Cinti