Qualche riflessione sulla poesia francese della mia generazione
Essendomi occupato da trent’anni in qua di poesia francese e francofona (Belgio, Libano, Québec) moderna e contemporanea, con riferimento critico ad autori di varie generazioni, non mi è facile individuare come poeta gli autori francesi “della mia generazione”, perché, come spesso accade, essi non sono necessariamente quelli che si sono maggiormente frequentati, o con i quali si sia trovata la maggiore affinità elettiva o continuità di scambi, tanto più in un’epoca di oggettiva crisi, per non dire assenza, di movimenti, dove ogni autore finisce col privilegiare il proprio percorso individuale, spesso ignorando quello altrui. Le coordinate critiche della poesia francese contemporanea sono quelle da me già esposte nella mia antologia Nuovi poeti francesi (Einaudi, 2011), nella quale, proponendo venti autori scelti fra quelli nati tra il 1940 e il 1970, ho mostrato come, pur nella diversità dei linguaggi e delle modalità stilistiche, si potesse, seppur semplificando, individuare un conflitto fra un neo-lirismo affidato alla difesa della nozione di soggettività dell’autore e alla ricerca di un senso mai scindibile da una voce e dalla sua musica, da un anti-lirismo di matrice oggettivistica e formalista nel quale a prevalere sono i dispositivi di scrittura e le istanze del significante che tendono a un aggiramento del senso e della fiducia nella possibilità che la poesia sia ancora in grado di davvero dire qualcosa e di incidere sulla realtà. Ne risulta da un lato un’articolazione del linguaggio, avvinto all’esperienza del vivere nel mondo capace di una fiducia, forse anche di una speranza, nel solco della lezione di autori come Yves Bonnefoy, Philippe Jaccottet, Claude Vigée e altri; dall’altro una ricerca che sperimenta contaminazioni anche performative con altri linguaggi, dalla musica, al cinema e alla fotografia, che trovano i loro antesignani nell’oggettivismo di Francis Ponge, nella scuola americana oggettivista di Reznikoff e Palmer che lavora per l’appunto, anche attraverso la tecnica del cut-up, sullo smembramento e sul “montaggio” dei materiali, dove ad essere messi in evidenza sono soprattutto l’artificio e la perizia tecnica della decostruzione e dove a volte meno si coglie l’intima ragione di un perché della scrittura. Dato per scontato che in ognuno di questi percorsi vi siano prove convincenti e degne di nota, pur nella magmaticità di un paesaggio estremamente variegato e non facilmente leggibile o riconducibile a schemi lineari, come alcune recenti antologie hanno evidenziato (penso, per tutte, alla recente antologia Un nouveau monde. Poésies en France 1960-2010. Un passage anthologique, a cura di Yves di Manno e Isabelle Garron, Flammarion, 2017, la quale non a caso parla, fin dal titolo, di “poesie” al plurale e di “passaggio”, a indicare la condizione di costante impermanenza evolutiva del genere), farò qui accenno brevemente ad alcune figure per età, e forse anche per qualche analogia tematica, avvicinabili alla mia personale ricerca d’autore. Partendo dalla mia summenzionata antologia einaudiana, vi è certo nell’opera di Jean-Baptiste Para (1956) un richiamo neoclassico al rapporto elegiaco con i luoghi che non sono unicamente quelli del mondo antico, ma anche altri legati a viaggi nel mondo «eurasiatico» (come egli ama definirsi, essendo sia italianista che slavista), che mi pare abitato dalla suggestione del mito e della storia, tale da fare della poesia un’esperienza di memoria e di vigilanza sulle vicende umane colte nel loro rapporto fra l’infanzia e il suo dolente trascolorare nell’età adulta, abitata dalla minaccia della morte e confrontata con l’enigma della perdita: «Non c’erano più stelle nel cielo del mattino/ e noi eravamo quella neve che gracili gambe calpestavano/ come la mente vergine di un neonato» (I Santi Innocenti). Da questo punto di vista anche la poesia in prosa di Jean-Michel Maulpoix (1952), saggista fra i massimi studiosi del lirismo, cerca, nel solco della lezione di Baudelaire e di Michaux, una voce che lasci pittoricamente la parola al colore, eleggendolo a personaggio, se «Il blu è un colore propizio alla scomparsa. Un colore in cui morire, un colore che libera, il colore stesso dell’anima dopo che si è spogliata del corpo, dopo che è sprizzato tutto il sangue e si sono svuotate le viscere, le tasche di ogni sorta, traslocando una volta per tutte il mobilio dei nostri pensieri.» (Una storia di blu). Su un tutt’altro fronte stilistico, più asciutto e scarno, ma anch’esso avvinto alla matrice corporea, pregnante appare il discorso poetico di Antoine Emaz (1955), che nell’interconnessione fra spazio, tempo e parola cerca di nominare un mondo in crisi e come in preda a un destino ineluttabile: «si cercano le parole/ per questa nassa di testa/ questa rete d’immagini/ ossessioni» (Panne, trad. di Fabio Pusterla). Più prossima a un lirismo mistico, la poesia di Jean-Yves Masson (1962), traduttore di Luzi e Rilke, di Emmanuel Moses (1959) – peraltro anch’egli autore come Para di una poesia dedicata ad Anchise (Le Présent, Flammarion, 1999) – e Alain Suied (1951-2008) abita un mondo notturno e interroga un sacro abitato dal desiderio come in sospeso rispetto ai drammi della storia, pur essendo costantemente guidata da una tensione metafisica in lotta contro la minaccia della cancellazione e della scomparsa, se Masson scrive: «la forma di notte/ che segue i nostri passi e mai abbandona il nostro desiderio». Sul fronte femminile citerò autrici tra le più incisive e convincenti, a partire dall’alsaziana Michèle Finck (1960), insigne comparatista, che da alcuni anni va sviluppando una ricerca singolarissima che fa dialogare la poesia con la musica in una sorta di ecfrasi magica e dolente che chiama in causa il dramma della malattia e della perdita inscritto nelle piaghe del corpo e come cantato in præsentia: «Poesia: gridare/ Sola a piedi nudi sulla /lama dell’addio» (Balbuciendo, Arfuyen, 2012). Ariane Dreyfus (1958), capace di singolare coreografie narrate in modo quasi cinematografico, sorprende per l’empatia visionaria delle sue erranze (Une histoire passera ici, Flammarion, 1999), mentre la quebecchese Hélène Dorion (1958) àncora la propria identità all’adesione al fragile dell’esistenza, che un cuore capace di intense emozioni sa ricondurre all’origine del tempo della natura: «Vedere e raggiungere, io scelgo// ciò che mi sfugge/ e mi denuda» (Cœurs, comme livres d’amour, L’Héxagone, 2012). Nudità che l’accomuna con quella che Muriel Stuckel, nel solco di Bernard Noël, chiama «ala danzante/ io prendo carne verbale» (Du ciel sur la paume, Voix d’encre, 2016). Forse è la poesia che più s’aggrappa alla consistenza fisica e metafisica del corpo e delle sue erranze, come è anche degli a me cari Bernard Chambaz (1949) ed Hervé Carn (1949), è quella che appare la più destinata a lasciare un segno tangibile di presenza nell’avventura della parola odierna.